ITA/FR/ENG/DEU
Traduzione in italiano e note a cura di Francesco Zevio
Tu puoi ritrarti dalle sofferenze del mondo, sei libero di farlo e ciò corrisponde alla tua natura, ma forse è proprio questo ritrarsi l’unica sofferenza che potresti evitare.
F. Kafka, Die Zürauer Aphorismen
L’umanità è la sola specie vivente i cui membri hanno coscienza di essere fragili, parzialmente infermi, soggetti a dolore e votati alla cessazione radicale, ovvero alla morte. Solo l’uomo può soffrire ed essere malato [1]. La capacità d’essere cosciente del dolore fa parte di quella adattazione autocritica all’ambiente che chiamiamo la salute dell’uomo. La salute è la sopravvivenza in un ben-essere che sappiamo relativo ed effimero. È la possibilità di vita [viabilité] dell’animale sprovvisto d’istinto, possibilità che deve essere mediata dalla società. Questa salute suppone la facoltà di assumersi una responsabilità personale di fronte al dolore, all’inferiorità, all’angoscia e infine alla morte. Essa è in rapporto con il significato attivo dell’individuo nel corpo sociale: e in questo senso la “salute” del feto o del lattante somiglia ancora a quella di un coniglio o di un gatto.
La salute dell’uomo ha sempre un tipo di esistenza definita socialmente. In generale, essa s’identifica alla “cultura” di cui tratta l’antropologia: ovvero quel programma di vita che assegna ai membri di un gruppo la capacità di porsi di fronte alla loro fragilità e affrontare, sempre nella provvisorietà, un ambiente circostante composto di cose e di parole più o meno stabili.
Identificando la “cultura” a un programma di salute, occorre evitare le insidie di un’antropologia per cui tutte le culture siano al servizio di una specie umana immutabile, come pure le insidie di quella per cui ogni cultura dia una definizione arbitraria dell’uomo. Non esiste essere umano che non sia trasformato dalla società nella quale si ritrova – proprio come non esiste una società che si fondi sull’autonomia con cui i suoi membri partecipano al programma che lei stabilisce. La cultura è il “bozzolo”, il “nido” che permette all’essere cosciente di riconciliarsi con la nicchia dell’universo in cui la sua specie si è evoluta e che è stata resa ostile attraverso l’impiego dei suoi strumenti.
Per essere sicuri di comprendere in che senso la cultura è un “nido” necessario alla sopravvivenza, è necessario andare al di là delle sue manifestazioni apparenti e concentrarci sulla sua funzione. Vediamo allora che la cultura non è un mero complesso di modelli di comportamento concreti come costumi, usi, tradizioni, abitudini… ma che è un insieme di meccanismi, di progetti di regolazione codificati, di piani, regole e istruzioni. In quanto animale affrancato dal determinismo genetico dei suoi istinti, l’uomo ha bisogno, estremo bisogno, di una regolazione che gli sia esteriore, e senza la quale non potrebbe mantenere l’equilibrio vitale di fronte al fallimento. In altri termini: ogni cultura è una delle forme possibili della vitalità umana, la Gestalt della salute caratteristica di un gruppo [2]. Essa non si aggiunge all’animale cosciente e già effettivamente completo, né tantomeno rimpiazza la sua coscienza. Essa è il modo di produzione dell’animale umano: essa determina il modo in cui la vita deve essere organizzata, nonché le categorie disponibili per dare forma alle emozioni. Sottomettendosi alla regolazione di un programma mediato sul piano simbolico, l’essere umano porta a compimento il suo destino biologico. Con l’orientarne il comportamento, la cultura determina la salute: ed è solo con l’edificazione di una cultura che l’uomo trova la salute.
Per ogni uomo la cultura è il programma di una lotta che termina nell’agonia. La cultura è il regolamento della lotta con la natura e con il vicino. In questo combattimento l’uomo è spesso solo, ma le armi, le regole del gioco e lo stile di combattimento sono forniti dalla cultura nella quale è stato elevato. Ogni cultura elabora e definisce una maniera particolare d’essere umano e d’essere sano, di gioire, di soffrire e di morire. Ogni codice sociale è coerente con una costituzione genetica, una storia, una data geografia e la necessità di confrontarsi con le culture limitrofe. Il codice si trasforma in funzione di questi fattori, e con lui si trasforma la “salute”. Ma ad ogni istante il codice serve da matrice all’equilibrio esterno e interno di ogni persona – genera la cornice in cui s’articola l’incontro dell’uomo con la terra e con i suoi vicini, così come il senso che l’uomo dà alla sofferenza, all’infermità e alla morte. È ruolo essenziale di ogni cultura viva quello di fornire delle chiavi per l’interpretazione di queste tre minacce, le più intime e fondamentali che vi siano. Più questa interpretazione rinforza la vitalità di ogni individuo, più reale la pietà verso l’altro una possibilità reale, più si può parlare di una cultura sana.
Questo potere generatore di salute, inerente ad ogni società tradizionale, è profondamente minacciato dallo sviluppo della medicina contemporanea. L’istituzione medica è una impresa professionale, ha per matrice l’idea che il ben-essere esiga l’eliminazione del dolore, la correzione di ogni anomalia, la sparizione delle malattie e la lotta contro la morte. Essa rinforza gli aspetti terapeutici di altre istituzioni del sistema industriale e assegna delle funzioni igieniche sussidiarie alla scuola, alla polizia, alla pubblicità e addirittura alla politica. Il mito alienante della civilizzazione medica cosmopolita riesce a imporsi ben al di là dell’ambito in cui l’intervento del medico si manifesta.
L’eliminazione del dolore, dell’infermità, delle malattie e della morte è un obbiettivo nuovo che fino ad ora non aveva mai servito come linea di condotta per la via di una società. È il rituale medico e il suo mito corrispondente che hanno trasformato dolore, infermità e morte da esperienze essenziali, a cui ognuno deve adattarsi, in una serie di scogli che minacciano il ben-essere e che obbligano ciascuno a ricorrere incessantemente a un consumo di prodotti la cui produzione è monopolizzata dall’istituzione medica. L’uomo, organismo debole ma munito di una capacità innata di recupero, diviene un meccanismo fragile sottomesso a una continua riparazione. Da qui, la contraddizione che oppone la civilizzazione medica dominante a ogni cultura tradizionale con la quale si trovi confrontata quando irrompe, in nome del progresso, nelle campagne o in paesi cosiddetti sottosviluppati.
Le culture tradizionali traggono la loro funzione igienica dalla loro capacità di sostenere ogni uomo confrontato al dolore, alla malattia e alla morte conferendo a tutto ciò un senso, organizzando la loro presa in carico da parte dell’individuo stesso o della sua cerchia più vicina [3]. L’igiene tradizionale è prima di tutto un insieme di regole per mangiare, dormire, amare, giocare, cantare, soffrire e morire. Senza dubbio anche la superstizione fa parte di queste regole, ma nella maggior parte dei casi anche l’atto di esorcismo o di magia è compiuto nella cornice di un modo di produzione decentralizzato e autonomo [4]. L’igiene tradizionale prescrive ugualmente come legarsi in matrimonio, come togliere i denti, come assumere droghe e come partorire. A dire il vero, gli interventi ai quali gran parte delle ricerche in antropologia medica si consacrano non costituiscono che una frazione infima di ciò che la cultura tradizionale apporta alla salute. Nella società preindustriale è la struttura globale del programma culturale che ha per fine la pratica dell’igiene in quanto abitudine e virtù [5].
L’efficacia del programma tradizionale si basa sull’integrazione di aspetti tecnici, sociali e simbolici: equilibrio che a un certo punto viene scosso dall’invasione della civilizzazione medica cosmopolita. Questa sostituisce a un programma di azione personale un codice secondo il quale gli individui sono tenuti a sottomettersi alle istruzioni emananti da terapeuti professionali [6]. Rimpiazza dunque una igiene centrata sull’atto personale con una centrata sulla prestazione professionale. L’istituzione assume la gestione della fragilità e al contempo restringe, mutila e infine paralizza la possibilità di interpretazione a di reazione autonoma dell’individuo confrontato alla precarietà della vita. L’efficacia che le persone e le piccole comunità possono raggiungere prendendosi cura d’esse stesse in una società tradizionale non sfocia nella concorrenza che caratterizza il modo di produzione industriale. Quando l’ideale di una presa in carico della salute per l’agenzia medica diviene dominante, l’equilibrio tra due modi di produzione complementare è definitivamente spezzato.
L’attaccamento e la fedeltà crescente alla terapeutica hanno altresì influenza sullo stato spirituale collettivo di una popolazione. Una domanda idolatra di manipolazione rimpiazza la confidenza nella forza di recupero e di adattazione biologica, il sentimento d’essere responsabile dello schiudersi di questa forza e la confidenza nella compassione del prossimo che sosterrà la guarigione, l’infermità e il declino. Il risultato è una regressione strutturale del livello di salute, intesa come potere d’adattazione dell’essere cosciente. Chiamo questa sindrome di regressione iatrogenesi strutturale.
NOTE:
[1] A questo proposito, nel capitolo immediatamente successivo a quello qui tradotto, troviamo scritto: “un dolore non costituisce sofferenza che nel momento in cui è integrato a una cultura.” La sofferenza è dunque, nel lessico di Illich, l’atto di provare dolore associato a una certa cultura, quindi interpretato secondo un certo sistema simbolico: per questo afferma che l’uomo è il solo animale capace di soffrire. [2] Gestalt, in tedesco, significa “forma”. Il termine è fitto di molte implicazioni, rimandiamo a questa pagina per una prima visione d’insieme: https://www.treccani.it/vocabolario/gestalttheorie/. [3] Nell’espressione “funzione igienica” va tenuto presente il significato etimologico del secondo termine: igienico deriva dal greco ὑγιής, composto di εὖ [bene] e βίος [vita], ed è quindi riconducibile al ben-essere in senso lato, non solo fisiologico. [4] Un concetto centrale in Illich è basato sulla distinzione tra modi di produzione autonomo e eteronomo. Il modo di produzione autonomo crea valori d’uso, quello eteronomo crea invece merci, dunque valori di scambio. Per esempio: l’insalata prodotta in orto e consumata in proprio è produzione di valore d’uso (la coltivo, la mangio ed è fatta), mentre l’insalata venduta ai supermercati è merce e valore di scambio (la coltivo, la vendo e ne ottengo un corrispettivo in denaro). Ogni cultura, ogni società produce valore attraverso entrambi questi modi, sebbene in grandezza variabile. Ciò che Illich denuncia è il fatto che, nelle nostre società, non solo la produzione di valore si sia pressoché totalmente polarizzata verso il modo eteronomo, ma che questa eccessiva polarizzazione tolga spazio e finisca per soffocare la possibilità stessa di produrre valore d’uso attraverso il modo autonomo. E questo avviene anche e soprattutto negli indici che si dà la nostra società per interpretarsi. Solo per fare un esempio: l’insalata coltivata nell’orto, il movimento a piedi che mi porta da una parte all’altra di una città, un giorno di riposo che mi permette di guarire dal mal di testa… queste azioni sono spesso invisibili agli indicatori economici e statistici, a differenza del fatto di comprare insalata che sa di plastica in un discount, a una corsa in macchina o in bus, all’acquisto di una tachipirina o altro. [5] Teniamo a sottolineare il fatto che Illich non auspica in alcun modo un ritorno a società e metodi preindustriali: un suo desiderio, semmai, sarebbe quello di tornare a trovare un nuovo equilibrio tra i sopracitati modi di produzione autonomo ed eteronomo. Parlando per esempio della deprofessionalizzazione della medicina, egli scrive: “la deprofessionalizzazione non significa l’abolizione della medicina moderna […] significa che sarà smascherato il mito secondo cui il progresso tecnico esige una specializzazione sempre crescente dei compiti, di manipolazioni sempre più astruse e una rinuncia sempre maggiore dell’uomo, inchiodato al suo diritto di essere trattato in istituzioni impersonali invece di porre la sua fiducia nei suoi simili e in sé stesso.” [6] “L’identificazione dell’individuo statistico all’uomo biologico unico crea una domanda insaziabile di risorse finite. L’individuo è subordinato ai bisogni superiori della collettività. Le cure preventive divengono obbligatorie, e il diritto del paziente a concedere il suo consenso ai trattamenti che gli sono inflitti viene progressivamente ridicolizzato.”
illich, colonisation mÉdicale
Tu peux te préserver de la souffrance du monde, cela dépend de toi et relève de ta nature, mais peut-être que la seule souffrance que tu puisses éviter est précisément cette réclusion.
F. Kafka, Die Zürauer Aphorismen
L’humanité est la seule espèce vivante dont les membres ont conscience d’être fragile, partiellement infirmes, sujets à la douleur et voués à la cessation radicale, c’est-à-dire la mort. Seul l’homme peut souffrir et être malade. La capacité d’être conscient de la douleur fait partie de l’adaptation autocritique au milieu qu’on appelle la santé de l’homme. La santé, c’est la survie dans un bien-être que l’on sait relatif et éphémère. C’est la viabilité de l’animal dépourvu d’instinct, viabilité qui doit être médiatisée par la société. Cette santé suppose la faculté d’assumer une responsabilité personnelle devant la douleur, l’infériorité, l’angoisse et, finalement, devant la mort. Elle est en rapport avec la signification active de l’individu dans le corps social, et dans ce sens la « santé » du fœtus ou du nourrisson ressemblent encore à celle du lapin ou du chat.
La santé de l’homme a toujours un type d’existence socialement définie. Globalement, elle s’identifie à la « culture » dont traite l’anthropologue, et qui n’est pas autre chose que le programme de vie qui confère aux membres d’un groupe la capacité de faire face à leur fragilité et d’affronter, toujours dans le provisoire, un environnement de choses et de mots plus ou moins stable.
En identifiant la « culture » à un programme de santé, il faut éviter les pièges d’une anthropologie pour qui toutes les cultures sont au service d’une essence humaine immuable, tout autant que les pièges de celle pour qui toute culture donne une définition arbitraire de l’homme. Il n’existe pas d’être humain qui ne soit transformé par la société dans laquelle il se trouve, pas plus qu’il n’existe de société qui ne se fonde sur l’autonomie avec laquelle ses membres participent au programme qu’elle établit. La culture, c’est le « cocon » qui permet à l’être conscient de se réconcilier avec la niche de l’univers où son espèce a évolué et qui a été rendu hostile par l’emploi des outils.
Pour être sûr de comprendre dans quel sens la culture est un « cocon » nécessaire à la survie, nous devons aller au-delà de ses manifestations apparentes et nous concentrer sur sa fonction. On voit mieux alors que la culture n’est pas un simple complexe de modèles de comportements concrets, tels que les coutumes, les usages, les traditions, les habitudes, mais que c’est un ensemble de mécanismes, de projets codés de régulation, de plans, de règles et d’instructions. L’homme étant l’animal qui s’est affranchi du déterminisme génétique de ses instincts, il a besoin, à un degré extrême, d’une régulation qui lui soit extérieure et sans laquelle il ne pourrait maintenir l’équilibre vital face à l’échec. En d’autres termes : toute culture est une des formes possibles de la viabilité humaine, la Gestalt de la santé caractéristique d’un groupe. Elle ne s’ajoute pas à l’animal conscient virtuellement achevé, et elle ne remplace pas, non plus, sa conscience. Elle est le mode de production de l’animal humain ; elle détermine la façon dont la vie doit être organisée, les catégories disponibles pour donner forme aux émotions. En se soumettant à la régulation d’un programme médiatisé sur le mode symbolique, l’être humain achève sa destinée biologique. En orientant le comportement, la culture détermine la santé, et c’est seulement en bâtissant une culture que l’homme trouve sa santé.
Pour chacun, la culture est le programme d’une lutte qui se termine dans l’agonie. La culture est le règlement de la lutte avec la nature et avec le voisin. Dans ce combat, l’homme est souvent seul, mais les armes, les règles du jeu et le style du combat sont fournis par la culture dans laquelle il a été élevé. Toute culture élabore et définit une façon particulière d’être humain et d’être sain, de jouir, de souffrir et de mourir. Toute code social est cohérent avec une constitution génétique, une histoire, une géographie données et avec la nécessité de se confronter avec les cultures avoisinantes. Le code se transforme en fonction de ces facteurs, et avec lui se transforme la « santé ». Mais à chaque instant le code sert de matrice à l’équilibre externe et interne de chaque personne ; il engendre le cadre dans lequel s’articule la rencontre de l’homme avec la terre et avec ses voisins, et également le sens que l’homme donne à la souffrance, à l’infirmité et à la mort. C’est le rôle essentiel de toute culture viable de fournir des clefs pour l’interprétation de ces trois menaces, les plus intimes et les plus fondamentales qui soient. Plus cette interprétation renforce la vitalité de chaque individu et plus elle rend la pitié envers l’autre réaliste, plus on peut parler d’une culture saine.
Ce pouvoir générateur de santé, inhérent à toute culture traditionnelle, est foncièrement menacé par le développement de la médecine contemporaine. L’institution médicale est une entreprise professionnelle, elle a pour matrice l’idée que le bien-être exige l’élimination de la douleur, la correction de toute anomalie, la disparition des maladies et la lutte contre la mort. Elle renforce les aspects thérapeutiques des autres institutions du système industriel et assigne des fonctions hygiéniques subsidiaires à l’école, à la police, à la publicité et même à la politique. Le mythe aliénant de la civilisation médicale cosmopolite parvient ainsi à s’imposer bien au-delà du cercle dans lequel l’intervention du médecin peut se manifester.
L’élimination de la douleur, de l’infirmité, des maladies et de la mort est un objectif nouveau qui n’avait jusqu’à présent jamais servi de ligne de conduite pour la vie en société. C’est le rituel médical et son mythe correspondant qui ont transformé douleur, infirmité et mort, d’expériences essentielles dont chacun doit s’accommoder, en une suite d’écueils qui menacent le bien-être et qui obligent chacun à recourir sans cesse à des consommations dont la production est monopolisée par l’institution médicale. L’homme, organisme faible mais muni du génie de récupération, devient un mécanisme fragile soumis à une continuelle réparation. D’où la contradiction qui oppose la civilisation médicale dominante à chacune des cultures traditionnelles avec lesquelles elle se trouve confrontée lorsqu’elle fait irruption, un nom du progrès, dans les campagnes ou dans les pays dits sous-développés.
Les cultures traditionnelles tirent leur fonction hygiénique précisément de leur capacité de soutenir chaque homme confronté à la douleur, à la maladie et à la mort en leur donnant un sens et en organisant leur prise en charge par lui-même ou par son entourage immédiat. L’hygiène traditionnelle, c’est en priorité des règles pour manger, dormir, aimer, jouer, chanter, souffrir et mourir. Sans doute la superstition fait-elle partie de ces règles, mais dans la plupart des cas même l’acte d’exorcisme et de magie est accompli dans le cadre d’un mode de production décentralisé et autonome. L’hygiène traditionnelle prescrit également comment se marier, comment arracher les dents, comment prendre les drogues et comment accoucher.
En fait, les interventions auxquelles la plus grande partie des recherches en anthropologie médicale se consacrent ne constituent qu’une fraction infime de ce que la culture traditionnelle apporte à la santé. Dans la société préindustrielle, c’est la structure globale du programme culturel qui a pour but la pratique de l’hygiène en tant qu’habitude et en tant que vertu.
L’efficacité de ce programme traditionnel repose sur l’intégration d’aspects techniques, sociaux et symboliques, équilibre qu’à un certain moment vient ébranler l’invasion de la civilisation médicale cosmopolite. Celle-ci substitue à un programme d’action personnel un code selon lequel les individus sont tenus de se soumettre aux instructions émanant des thérapeutes professionnels. Elle remplace une hygiène centrée sur l’acte personnel par une autre, centrée sur la prestation professionnelle. L’institution assume la gestion de la fragilité, et en même temps restreint, mutile et finalement paralyse la possibilité d’interprétation et de réaction autonome de l’individu confronté à la précarité de la vie. L’efficacité que les personnes et les petites communautés peuvent atteindre en prenant soin d’elles-mêmes dans une société traditionnelle ne débouche pas sur la concurrence qui caractérise le mode de production industriel. Quand l’idéal d’une prise en charge de la santé par l’agence médical devient dominant, l’équilibre entre deux modes de production complémentaires est définitivement rompu.
L’attachement et l’allégeance croissante à une thérapeutique affectent aussi l’état d’esprit collectif d’une population. Une demande idolâtre de manipulation remplace la confiance dans la force de récupération et d’adaptation biologique, le sentiment d’être responsable de l’éclosion de cette force et la confiance dans la compassion du prochain qui soutiendra la guérison, l’infirmité, le déclin. Le résultat est une régression structurelle du niveau de santé, celle-ci étant comprise comme pouvoir d’adaptation de l’être conscient. Ce syndrome de régression, je l’appelle iatrogenèse structurelle.
ILLICH, MEDICAL NEMESIS
FOREWORD FOR THIS TEXT VERSION
The English and the German versions are quite different from the French one, which we choose to translate and present to our Italian readers. For this reason, we suggest the English or German reader to also have a look at the French text, or at the Italian translation. In the following text version, footnotes do not appear.
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You can hold back from the suffering of the world, that is up to you and corresponds to your nature, but perhaps this holding back is the only suffering that you could avoid.
F. Kafka, Die Zürauer Aphorismen
We have dealt so far with two ways in which the predominance of medicalized health care becomes an obstacle to a healthy life: first, clinical iatrogenesis, which results when organic coping capacity is replaced by heteronomous management; and, second, social iatrogenesis, in which the environment is deprived of those conditions that endow individuals, families, and neighbourhoods with control over their own internal states and over their milieu. Cultural iatrogenesis represents a third dimension of medical health-denial. It sets in when the medical enterprise saps the will of people to suffer their reality. It is a symptom of such iatrogenesis that the term "suffering" has become almost useless for designating a realistic human response because it evokes superstition, sadomasochism, or the rich man's condescension to the lot of the poor. Professionally organized medicine has come to function as a domineering moral enterprise that advertises industrial expansion as a war against all suffering. It has thereby undermined the ability of individuals to face their reality, to express their own values, and to accept inevitable and often irremediable pain and impairment, decline and death.
To be in good health means not only to be successful in coping with reality but also to enjoy the success; it means to be able to feel alive in pleasure and in pain; it means to cherish but also to risk survival. Health and suffering as experienced sensations are phenomena that distinguish men from beasts. Only storybook lions are said to suffer and only pets to merit compassion when they are in ill health.
Human health adds openness to instinctual performance. It is something more than a concrete behaviour pattern in customs, usages, traditions, or habit-clusters. It implies performance according to a set of control mechanisms: plans, recipes, rules, and instructions, all of which govern personal behaviour. To a large extent culture and health coincide. Each culture gives shape to a unique Gestalt of health and to a unique conformation of attitudes towards pain, disease, impairment, and death, each of which designates a class of that human performance that has traditionally been called the art of suffering.
Each person's health is a responsible performance in a social script. How he relates to the sweetness and the bitterness of reality and how he acts towards others whom he perceives as suffering, as weakened, or as anguished determine each person's sense of his own body, and with it, his health. Body-sense is experienced as an ever-renewed gift of culture. In Java people flatly say, "To be human is to be Javanese." Small children, boors, simpletons, the insane, and the flagrantly immoral are said to be ndurung djawa (not yet Javanese). A "normal" adult capable of acting in terms of the highly elaborate system of etiquette, possessed of the delicate aesthetic perceptions associated with music, dance, drama, and textile design, and responsive to the subtle promptings of the divine residing in the stillness of each individual's inward-turning consciousness is ampun djawa (already Javanese). To be human is not just to breathe; it is also to control one's breathing by yogalike techniques so as to hear in inhalation and exhalation the literal voice of God pronouncing his own name, hu Allah. Cultured health is bounded by each society's style in the art of living, feasting, suffering, and dying.
All traditional cultures derive their hygienic function from this ability to equip the individual with the means for making pain tolerable, sickness or impairment understandable, and the shadow of death meaningful. In such cultures health care is always a program for eating, drinking, working, breathing, loving, politicking, exercising, singing, dreaming, warring, and suffering.
Most healing is a traditional way of consoling, caring, and comforting people while they heal, and most sick-care a form of tolerance extended to the afflicted. Only those cultures survive that provide a viable code that is adapted to a group's genetic make-up, to its history, to its environment, and to the peculiar challenges represented by competing groups of neighbours.
The ideology promoted by contemporary cosmopolitan medical enterprise runs counter to these functions. It radically undermines the continuation of old cultural programs and prevents the emergence of new ones that would provide a pattern for self-care and suffering. Wherever in the world a culture is medicalized, the traditional framework for habits that can become conscious in the personal practice of the virtue of hygiene is progressively trammelled by a mechanical system, a medical code by which individuals submit to the instructions emanating from hygienic custodians. Medicalization constitutes a prolific bureaucratic program based on the denial of each man's need to deal with pain, sickness, and death. The modern medical enterprise represents an endeavour to do for people what their genetic and cultural heritage formerly equipped them to do for themselves. Medical civilization is planned and organized to kill pain, to eliminate sickness, and to abolish the need for an art of suffering and of dying. This progressive flattening out of personal, virtuous performance constitutes a new goal which has never before been a guideline for social life. Suffering, healing, and dying, which are essentially intransitive activities that culture taught each man, are now claimed by technocracy as new areas of policy-making and are treated as malfunctions from which populations ought to be institutionally relieved. The goals of metropolitan medical civilization are thus in opposition to every single cultural health program they encounter in the process of progressive colonization.
ILLICH, DIE NEMESIS DER MEDIZIN
VORWORT ZU DIESER TEXTVERSION
Die deutsche und die englische Version dieses Textes weichen von der französischen ab, die wir wählten, um ins Italienische übersetzt zu werden. Aus diesem Grund schlagen wir dem deutschsprachigen oder englischsprachigen Leser vor, auch einen Blick auf die französische oder italienische Übersetzung zu werfen.
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Du kannst dich zurückhalten von den Leiden der Welt, das ist dir freigestellt und entspricht deiner Natur, aber vielleicht ist gerade dieses Zurückhalten das einzige Leid, das du vermeiden könntest.
F. Kafka, Die Zürauer Aphorismen
Bislang haben wir zwei Arten kennengelernt, wie die Vorherrschaft: der medikalisierten Gesundheitspflege zum Hemmnis für ein gesundes Leben wird: erstens die klinische Iatrogenesis, die entsteht wenn die organische Fähigkeit zur Lebensbewältigung durch heteronome Verwaltung ersetzt wird; und zweitens die soziale Iatrogenesis, bei der die Umwelt jener Bedingungen beraubt wird, die es den Individuen, den Familien und der Nachbarschaf ermöglichen, ihre eigene innere Verfassung und ihr Milieu zu kontrollieren. Eine dritte Dimension der medizinischen Gesundheitsverweigerung ist die kulturelle Iatrogenesis. Sie setzt ein, sobald der Medizin-Betrieb den Willen der Menschen schwächt, ihre Realität zu erleiden. Symptom solcher Iatrogenesis ist, daß das Wort «Leiden» inzwischen kaum noch geeignet ist, eine realistische menschliche Reaktion zu bezeichnen, weil es an Aberglauben, Sadomasochismus oder an die Verachtung der Reichen für das Los der Armen erinnert. Die zünftisch organisierte Medizin fungiert als allbeherrschendes moralisches Unternehmen, das jegliches Leiden durch industrielle Expansion bekämpfen will. Damit hat sie die Fähigkeit der Menschen zerstört, ihre Realität zu ertragen, ihre Wertvorstellungen zu artikulieren und die Unvermeidbarkeit und manchmal Unheilbarkeit von Schmerz und Schwäche, von Verfall und Tod zu akzeptieren.
Gesund sein bedeutet nicht nur, erfolgreich die Realität zu bestehen, sondern auch diesen Erfolg zu genießen; es bedeutet die Fähigkeit, sich in Lust und Schmerz lebendig zu fühlen; es bedeutet, das Leben hochzuschätzen, aber auch zu respektieren. Gesundheit und Leiden als erlebte Sensationen sind Phänomene, die den Menschen vom Tier unterscheiden. Nur vom Löwen im Kinderbuch heißt es, daß er leidet; und nur Schoßhunde verdienen Mitleid, wenn sie krank sind.
Menschliche Gesundheit aber fügt dem lnstinktverhalten die Dimension der Offenheit hinzu. Sie ist mehr als ein in Sitten, Bräuchen, Traditionen und Gewohnheiten sich äußerndes konkretes Verhaltensmuster. Sie impliziert die Beachtung einer Reihe von Kontrollmechanismen: Pläne, Vorschriften, Regeln und Instruktionen, die alle das persönliche Verhalten regieren. Kultur und Gesundheit koinzidieren weitgehend. Jede Kultur entwickelt eine einmalige Gestalt der Gesundheit und ein Gefüge von Einstellungen zu Schmerz, Krankheit, Schwäche und Tod, deren jede eine Kategorie menschlichen Verhaltens bezeichnet, die traditionell die Kunst des Leidens genannt wurde.
Jedes Menschen Gesundheit ist ein verantwortliches Handeln im gesellschaftlichen Kontext. Seine Einstellung zu Glück und Bitternis der Realität und seine Haltung gegenüber anderen, die er in Leiden, Schwäche, Angst und Pein sieht, bestimmt das Körpergefühl jedes Menschen und damit seine Gesundheit.
Körpergefühl wird als stets sich erneuerndes Kulturgeschenk erlebt. In Java sagen die Leute lakonisch: Mensch sein heißt Javanese sein. Kleine Kinder, Flegel, Idioten, Verrückte und flagrant unmoralische Menschen nennen sich ndurung djawa (noch nicht Javanese). Ein «normaler» Erwachsener, der imstande ist, das höchst kunstvolle System sozialer Spielregeln einzuhalten, der über die delikaten ästhetischen Wahrnehmungen verfügt, die Musik, Tanz, Drama und Textilmuster vermitteln, und der auf die subtilen Eingebungen der Gottheit zu reagieren vermag, die in der Stille des nach innen gekehrten Bewußtseins jedes Menschen wohnt, heißt ampun djawa (bereits Javanese). Ein Mensch sein heißt nicht nur atmen; es bedingt auch die Kontrolle des Atems durch dem Yoga verwandte Techniken, um im Ein- und Ausatmen buchstäblich die Stimme Gottes zu hören, der seinen Namen ausspricht: hu Allah. Die kulturell geprägte Gesundheit ist im Stil einer jeden Gesellschaft festgelegt als Kunst, zu leben, zu feiern, zu leiden und zu sterben.
Alle traditionellen Kulturen leiten ihre hygienische Funktion aus dieser Fähigkeit ab, dem einzelnen die Mittel zu geben, um Schmerz erträglich, Krankheit oder Schwäche verstehbar und den Schatten des Todes sinnvoll zu machen. In solchen Kulturen ist Gesundheitspflege stets ein verbindliches Programm für Essen, Trinken, Arbeiten, Atmen, Lieben, Politikmachen, Sport-Üben, Singen, Träumen, Kämpfen und Leiden.
Heilen ist meist eine traditionelle Art und Weise, Menschen zu pflegen und zu trösten, während sie gesunden; und Krankenpflege ist meist eine Form der Toleranz, die den Gebrechlichen zuteil wird. Nur jene Kulturen überleben, die einen lebensfähigen Verhaltenskodex bieten, der an die genetische Veranlagung einer Gruppe, an ihre Geschichte, ihre Umwelt und die besonderen durch die Rivalität benachbarter Gruppen bedingten Gefahren angepaßt ist.
Die Ideologie, die der moderne, kosmopolitische Medizin-Betrieb propagiert, läuft diesen Funktionen zuwider. Er untergräbt radikal den Fortbestand alter Kulturprogramme und verhindert die Entstehung neuer, die Verhaltensmuster für Selbstbehandlung und Leiden bieten könnten. Wo immer in der Welt eine Kultur sich medikalisiert, da wird der traditionelle Rahmen der Sitten und Bräuche, die als persönliche Übung in der Tugend der Hygiene bewußt werden können, zunehmend durch ein mechanisches System, durch einen medizinischen Kodex verdrängt, der von den Individuen verlangt, sich den Anweisungen von Hygiene-Aufpassern zu unterwerfen. Die Medikalisierung ist ein wucherndes bürokratisches Programm, das auf der Leugnung der menschlichen Notwendigkeit beruht, sich mit Schmerz, Tod und Krankheit auseinanderzusetzen. Der moderne Medizin-Betrieb ist die Bemühung, dem Menschen das abzunehmen, was für sich selbst zu tun sein genetisches und kulturelles Erbe ihn vordem befähigte. Die medizinische Zivilisation wird geplant und organisiert, um Schmerz abzutöten, Krankheit zu eliminieren und das Bedürfnis nach der Kunst, zu leiden und zu sterben, abzuschaffen. Diese zunehmende Verflachung des persönlichen Tugendverhaltens ist ein neues Ziel, das noch nie zuvor Leitlinie des sozialen Lebens war. Leiden, Heilen und Sterben, also wesentlich intransitive Aktivitäten, die Kultur einst jeden einzelnen lehrte, werden heute von der Technokratie als Gegenstände politischen Gerangels beansprucht und als Funktionsfehler behandelt, von denen die Bevölkerung durch Institutionen befreit werden soll. Die Ziele der imperialistischen Medizin-Zivilisation stehen also im Gegensatz zu jedem kulturellen Gesundheitsprogramm, auf das sie im Verlauf ihrer progressiven Kolonisierung stoßen.
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