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PROPONE PEREIRA - ILLICH, DEMITIZZAZIONE DELLA SCIENZA

ITA/ENG/FR

Traduzioni e premessa di Francesco Zevio



PREMESSA: Per “demitizzazione” è qui intesa la demistificazione di qualcosa che si presenti come naturale e scontato pur essendo artificiale e arbitrario. Secondo le parole di Roland Barthes: “il suo scopo proprio [del mito] è quello di fondare una intenzione storica in natura, una contingenza in eternità […] il mito è costituito dalla perdita della qualità storica delle cose: in esso, le cose perdono il ricordo della loro fabbricazione” (R. Barthes, Mythologies). Oltre a ciò, mitologia deve essere qui intesa come una cornice di riferimenti in senso lato, all’interno della quale si localizzano le attività e le pratiche di una cultura particolare.

Questo non vuole essere un attacco al sapere scientifico, alla cultura scientifica o ai suoi esperti. Con questo brano speriamo piuttosto di porre l’accento sui problemi del sapere: problemi legati alla sua produzione e al suo uso (o abuso) sociale.


* * *


Prima di tutto, il dibattito politico è congelato da un inganno che riguarda la scienza. Questa parola è ormai passata a designare una impresa istituzionale, piuttosto che un’attività personale; la soluzione a una serie di rompicapi, piuttosto che parte dell’imprevedibile dispiegarsi della creatività umana. La scienza è ora un’agenzia di servizi fantasma e onnipresente che produce miglior sapere, proprio come la medicina produce migliore salute. Il danno causato da questo controsenso sulla natura del sapere è ancora più radicale del male causato dal mercimonio dell’educazione, della salute e del movimento. L’illusione della migliore salute corrompe il corpo sociale: e questo perché ciascuno si preoccupa sempre meno della qualità dell’ambiente, dell’igiene del suo modo di vita, della sua propria capacità di assistere il prossimo. L’istituzionalizzazione del sapere porta a una degradazione globale più profonda perché determina la struttura comune degli altri prodotti. In una società che si definisce attraverso il consumo del sapere la creatività è mutilata, l’immaginazione si atrofizza.


Questa perversione della scienza è fondata sulla credenza in due specie di sapere: quello, inferiore, dell’individuo, e quello, superiore, della scienza. Il primo sapere riguarderebbe il dominio dell’opinione, l’espressione di una soggettività, e il progresso non avrebbe niente a che farci. Il secondo sarebbe oggettivo, definito dalla scienza, diffuso dai suoi esperti e porta parola. Questo sapere oggettivo è considerato come un bene che può essere immagazzinato e costantemente migliorato. È una risorsa strategica, un capitale, la più preziosa tra le materie prime: l’elemento base di ciò che ci siamo messi a chiamare processo decisionale [decision-making, in e-taliano], quest’ultimo essendo anch’egli considerato come un processo impersonale e tecnico. Nel nuovo regno del computer e della dinamica di gruppo, il cittadino abdica a ogni potere in favore dell’esperto, solo competente.


Il mondo non è portatore di alcun messaggio, di alcuna informazione. È ciò che è. Ogni messaggio che concerne il mondo è prodotto da un organismo vivente che agisce su di esso. Qualora si parli di informazioni immagazzinate fuori dall’organismo umano, cadiamo in una trappola semantica. I libri e i computer fanno parte del mondo. Forniscono dei dati nel momento in cui un occhio è lì presente per leggerli. Confondendo il medium con il messaggio, il ricettacolo con l’informazione stessa, i dati con la decisione, noi releghiamo con disinvoltura il problema del sapere e della conoscenza al punto cieco dello spirito [1].


Intossicati dal credo in un futuro migliore, gli individui smettono di fare affidamento al loro giudizio e richiedono che gli si dica la verità su ciò che loro “sanno”. Intossicati dal credo in un miglior processo decisionale, hanno difficoltà a decidere in autonomia e perdono presto fiducia nel loro potere di fare. La crescente impotenza dell’individuo nel prendere da solo le proprie decisioni influisce sulla struttura stessa della sua attesa. In passato gli uomini si contendevano una rarità di risorse concreta, ora reclamano un meccanismo distributore per colmare una mancanza illusoria. Il rituale burocratico organizza il consumo frenetico del menu sociale: programma d’educazione, trattamento medico o azione giudiziaria. Il conflitto personale è privato di ogni legittimità, dal momento in cui la scienza promette l’abbondanza per tutti e pretende dare a ciascuno secondo le sue mancanze personali e sociali, oggettivamente identificate. Gli individui, avendo disappreso a riconoscere i loro propri bisogni come a reclamare i loro propri diritti, divengono le prede della grande macchina che definisce al posto loro le loro mancanze e rivendicazioni. La persona non può più contribuire in prima persona al continuo rinnovamento della vita sociale. L’uomo giunge a diffidare della parola, si aggrappa a un sapere supposto. Il voto rimpiazza l’assemblea, la cabina elettorale i banchi e i tavolini dei caffè. Il cittadino si siede davanti allo schermo e tace.


Le regole del senso comune che permettevano agli uomini di coniugare e condividere le loro esperienze sono distrutte. L’utente-consumatore ha bisogno della sua dose di sapere garantito, accuratamente condizionato. Trova la sua sicurezza nella certezza di leggere lo stesso giornale del suo vicino, di guardare lo stesso programma televisivo che il suo capo. Si accontenta di avere accesso allo stesso rubinetto di sapere che il suo superiore, piuttosto che di cercare d’instaurare un’eguaglianza di condizioni che dia alla sua parola lo stesso peso di quella del suo capo. La dipendenza, ovunque accettata come se andasse da sé, dal sapere altamente qualificato prodotto dalla scienza, dalla tecnica e dalla politica, erode la fiducia tradizionale nella veracità del testimone e svuota di senso le principali maniere con cui gli uomini possono scambiare le proprie certezze. Fin di fronte ai tribunali, la perizia compete, in peso, con le testimonianze. L’esperto è pressoché ammesso come testimone patentato, ci si dimentica che la sua deposizione non rappresenta che il sentito dire, la opinione di una professione. Sociologhi e psichiatri accordano o negano il diritto alla parola, a una parola udibile. Ponendo la sua fede nell’esperto, l’uomo si spoglia in primis della sua competenza giuridica, quindi di quella politica. La loro fiducia nell’onnipotenza della scienza incita i governi e i loro amministrati a cullarsi nell’illusione di eliminare i conflitti suscitati da una evidente rarefazione dell’acqua, dell’aria, dell’energia; a credere ciecamente agli oracoli degli esperti che promettono miracoli moltiplicatori.


Nutrita dal mito della scienza, la società abbandona agli esperti persino la cura di porre i limiti della crescita. Ora: una tale delega del potere distrugge il funzionamento politico: alla parola, in quanto misura di tutte le cose, sostituisce l’obbedienza a un mito e infine legittima in qualche modo gli esperimenti condotti sugli uomini [2]. L’esperto non rappresenta il cittadino, fa parte di un élite la cui autorità si fonda sul possesso esclusivo di un sapere non comunicabile; ma, di fatto, questo sapere non gli conferisce alcuna attitudine particolare a definire i confini dell’equilibrio della vita. L’esperto non potrà mai dire dove si situa la soglia della tolleranza umana. È la persona che la determina, in comunità: nessuno può abdicare a questo diritto. Certo: è possibile condurre esperimenti sugli esseri umani. I medici nazisti hanno esplorato i limiti della resistenza dell’organismo. Hanno scoperto quanto tempo l’uomo medio può sopportare la tortura, ma questo non ha rivelato loro ciò che una persona può considerare tollerabile. Fatto significativo: questi medici sono stati condannati in base a un patto firmato a Norimberga due giorni dopo la distruzione di Hiroshima, alla veglia di quella di Nagasaki.


Ciò che un popolo può sopportare rimane fuori dalla portata di ogni esperimento. Si può dire ciò che avviene di un gruppo d’uomini particolari posti in una situazione estrema: prigionieri, naufraghi, cavie. Ma questo non può servire a determinare il grado di sofferenza e di frustrazione che una data società accetterà di subire a causa della strumentazione che avrà essa stessa forgiato. Certo: operazioni scientifiche di misura possono indicare che un certo tipo di comportamento minaccia un equilibrio vitale maggiore. Ma solo una maggioranza d’uomini di giudizio, i quali conoscano la complessità delle realtà quotidiane e ne tengano conto nel loro agire, possono comprendere come limitare i fini che si danno la società e gli individui. La scienza può mettere in luce le dimensioni del regno dell’uomo nel cosmo. Ma è necessaria una comunità politica di uomini coscienti della forza della loro ragione, del peso della loro parola, della serietà dei loro atti, per scegliere liberamente l’austerità che potrà garantire la loro vitalità.


La convivialità, 1973


NOTE:


[1] Si pensi alla nozione di inscripteur formulata da Derrida e ripresa nei seguenti termini da Latour: “[…] concentriamo l’attenzione su schemi e figure e dati, dimenticandoci delle procedure materiali che li hanno prodotti, o accordandoci per rigettarle nell’ambito della pura tecnica […] sarebbe un errore quello di prendere come punto di partenza le differenze fra ciò che in scienza è tecnica e ciò che non lo è […] assistiamo allora alla trasformazione di ciò che altro non è se non il mero risultato di una iscrizione in oggetto che si inserisce e aderisce alla mitologia vigente […] senza spettrometro, nessuno spettro: di fatto i fenomeni non solo dipendono dal materiale, ma sono interamente costituiti dagli strumenti impiegati nel laboratorio. E così abbiamo costruito, grazie agli strumenti d’iscrizione [inscripteurs], una realtà artificiale, di cui chi impiega tali strumenti parla come di una entità oggettiva. Questa realtà, che Bachelard chiama fenomenotecnica, assume l’apparenza del fenomeno nel processo stesso della sua costruzione tramite tecniche materiali” (S. Woolgar / B. Latour, La vie de laboratoire).


[2] “Il mondo entra nel linguaggio come un rapporto dialettico di attività e di atti umani; esce dal mito come un quadro armonioso di essenze” (R. Barthes, Mythologies).



 


DEMYTHOLOGISATION OF SCIENCE



FOREWORD: By “demythologisation” we should understand the demystification of something that may appear and present itself to us as natural and taken for granted while actually being, on the other hand, artificial and arbitrary. As Roland Bathes once wrote: “[myth] aims at founding a historic intention in nature, a contingence in eternity […] myth is constituted by the loss of things’ historical quality and background: in it, things lose the memory of their fabrication” (R. Barthes, Mythologies). Besides that, “mythology” refers to a broad frame of reference within which can be situated the activities and practices of a particular culture.

This is not meant to be an attack on scientific knowledge or culture, or on its experts. With this text, we rather hope to emphasize the problems of knowledge: problems related to its production and its social use (or abuse).


* * *


Above all, political discussion is stunned by a delusion about science. This term has come to mean an institutional enterprise rather than a personal activity, the solving of puzzles rather than the unpredictably creative activity of individual people. Science is now used to label a spectral production agency which turns out better knowledge just as medicine produces better health. The damage done by this misunderstanding about the nature of knowledge is even more fundamental than the damage done to the conceptions of health, education, or mobility by their identification with institutional outputs. False expectations of better health corrupt society, but they do so in only one particular sense. They foster a declining concern with healthful environments, healthy life styles, and competence in the personal care of one’s neighbour. Deceptions about health are circumstantial. The institutionalization of knowledge leads to a more general and degrading delusion. It makes people dependent on having their knowledge produced for them. It leads to a paralysis of the moral and political imagination.


This cognitive disorder rests on the illusion that the know1edge of the individual citizen is of less value than the knowledge of science. The former is the opinion of individuals. It is merely subjective and is excluded from policies. The latter is objective - defined by science and promulgated by expert spokesmen. This objective knowledge is viewed as a commodity which can be refined, constantly improved, accumulated and fed into a process, now called “decision-making”. This new mythology of governance by the manipulation of knowledge-stock inevitably erodes reliance on government by people.


The world does not contain any information. It is as it is. Information about it is created in the organism through its interaction with the world. To speak about storage of information outside the human body is to fall into a semantic trap. Books or computers are part of the world. They can yield information when they are looked upon. We move the problem of learning and of cognition nicely into the blind spot of our intellectual vision if we confuse vehicles for potential information with information itself [1]. We do the same when we confuse data for potential decision with decision itself. Overconfidence in “better knowledge” becomes a self-fulfilling prophecy. People first cease to trust their own judgement and then want to be told the truth about what they know. Overconfidence in “better decision-making” first hampers people’s ability to decide for themselves and then undermines their belief that they can decide.


The growing impotence of people to decide for themselves affects the structure of their expectations. People are transformed from contenders for scarce resources into competitors for abundant promises. Adjudication by ordeal is replaced by recourse to secular rituals. These rituals are organized as frenzied consumption of the offerings of some menu: a curriculum, a therapy, or a court case. The promise that science will provide affluence for all and for each according to his objectively verified merits deprives personal conflict of its creative legitimacy. People who have unlearned how to decide about their own rights on their own evidence, become pawns in a world game operated by mega-machines. No longer can each person make his or her own contribution to the constant renewal of society. Recourse to better knowledge produced by science not only voids personal decisions of the power to contribute to an ongoing historical and social process, it also destroys the rules of evidence by which experience is traditionally shared. The knowledge-consumer depends on getting packaged programmes funnelled into him. He finds security in the expectation that his neighbour and his boss have seen the same programmes and read the same columns. The procedure by which personal certainties are honestly exchanged is eroded by the increasing recourse to exceptionally qualified knowledge produced by a science, profession, or political party. Mothers poison their children on the adman’s or the M.D.’s advice. Even in the courtroom and in parliament, scientific hearsay - well hidden under the veil of expert testimony - biases juridical and political decisions. Judges, governments, and voters abdicate their own evidence about the necessity of resolving conflicts in a situation of defined and permanent scarcity and opt for further growth on the basis of data which they admittedly cannot fully understand.


When communities have grown overconfident in science, they leave it to expend to set the upper limits on growth. This mandate rests on a fallacy. Experts can define standards at levels slightly below those at which people complain with too much force. They can keep the public sullen and forestall mutiny. But closed peer groups cannot be entrusted with self-restraint in furthering their expert knowledge. Nor can we expect them to be representative of the common man. Scientific expertise cannot define what people will tolerate. No person can abdicate the right to decide on this for himself. It is, of course, possible to experiment on humans. Nazi doctors explored what the organism can endure. They found out how long the average person can survive torture, but this did not tell them anything about what someone can tolerate. These doctors were condemned under a statute signed in Nuremberg two days after Hiroshima and the day before the bomb was dropped on Nagasaki.


What a population will endure remains beyond experiment. We can tell what happens to particular groups of people under extreme circumstances - in prison, on an expedition, or in an experiment. Such precedents cannot serve as measures for the privations which a society will tolerate as a result of tools or rules made for its service. Scientific measurements may suggest that a certain endeavour threatens a major balance of life. Only the informed judgement of a majority of prudent men who act on the much more complex basis of everyday evidence can determine how to limit individual and social goals. Science can clarify the dimensions of man’s realm in the universe. Only a political community can dialectically choose the dimensions of the roof under which its members will live.


Tools of conviviality, 1973


NOTES:


[1] As for this, we should consider Latour’s notion of inscripteur: “[…] the diagram or sheet of figures becomes the focus of discussion between participants, and the material processes which gave rise to it are either forgotten or taken for granted as being merely technical matters […] it would be wrong to take differences between what is and is not technical in science as the starting point […] There thus occurs a transformation of the simple end product of inscription into the terms of the mythology which informs participants’ activities […] the spectrum produced by a nuclear magnetic resonance (NMR) spectrometer would not exist but for the spectrometer. It is not simply that phenomena depend on certain material instrumentation; rather, the phenomena are thoroughly constituted by the material setting of the laboratory. The artificial reality, which participants describe in terms of an objective entity, has in fact been constructed by the use of inscription devices. Such a reality, which Bachelard terms the phenomenotechnique, takes on the appearance of a phenomenon by virtue of its construction through material techniques (S. Woolgar / B. Latour, Laboratory Life. The Social Construction of Scientific Facts).


[2] “The word enters the language as a dialectic relationship of human acts and activities; it emerges from myth as a harmonic picture of essences” (R. Barthes, Mythologies).


 


DEMYTHOLOGISATION DE LA SCIENCE



AVANT-PROPOS : Par « démythologisation » il faut ici entendre la démystification de quelque chose qui peut nous apparaître comme évident et naturel tout en étant, au contraire, artificiel et arbitraire. Selon les mots de Roland Barthes : « [le mythe] a pour charge de fonder une intention historique en nature, une contingence en éternité […] le mythe est constitué par la déperdition de la qualité historique des choses : les choses perdent en lui le souvenir de leur fabrication » (R. Barthes, Mythologies). En outre, il faut entendre la « mythologie » comme un cadre de référence au sens large, à l’intérieur duquel on peut localiser les activités et les pratiques d’une culture particulière.

Il ne s’agit pas, ici, d’une attaque mené contre la culture et le savoir scientifique, ou contre ses experts. Avec ce texte, nous espérons plutôt mettre l’accent sur certains des problèmes propres au savoir : problèmes liés à sa production et à son usage (ou abus) social.


* * *


Par-dessus tout, le débat politique est gelé par une tromperie concernant la science. Le mot en est venu à désigner une entreprise institutionnelle plutôt qu’une activité personnelle, la solution d’une série de casse-tête plutôt que l’imprévisible déploiement de la créativité humaine. La science est maintenant une agence de services fantôme et omniprésente, qui produit du meilleur savoir tout comme la médecine produit de la meilleure santé. Le dommage causé par ce contresens sur la nature du savoir est encore plus radical que le mal fait par la mercantilisation de l’éducation, de la santé et du mouvoir. Le leurre de la meilleure santé corrompt le corps social, car chacun se préoccupe de moins en moins de la qualité de l’environnement, de l’hygiène de son mode de vie ou de sa propre capacité à soigner autrui. L’institutionnalisation du savoir mène à une dégradation globale plus profonde parce qu’elle détermine la structure commune des autres produits. Dans une société qui se définit par la consommation du savoir, la créativité est mutilée, l’imagination s’atrophie.


Cette perversion de la science est fondée sur la croyance en deux espèces de savoir : celui, inférieur, de l’individu, et celui, supérieur, de la science, Le premier savoir serait du domaine de l’opinion, l’expression d’une subjectivité, et le progrès n’en aurait rien à faire. Le second serait objectif, défini par la science et répandu par des porte-parole experts. Ce savoir objectif est considéré comme un bien qui peut être stocké et constamment amélioré. C’est une ressource stratégique, un capital, la plus précieuse des matières premières, l’élément de base de ce qu’on s’est mis à appeler la prise de décision, celle-ci étant à son tour conçue comme un processus impersonnel et technique. Sous le nouveau règne de l’ordinateur et de la dynamique de groupe, le citoyen abdique tout pouvoir en faveur de l’expert, seul compétent.


Le monde n’est porteur d’aucun message, d’aucune information. Il est ce qu’il est. Tout message concernant le monde est produit par un organisme vivant qui agit sur lui. Lorsqu’on parle d’informations stockées en dehors de l’organisme humain, on tombe dans un piège sémantique. Les livres et les ordinateurs font partie du monde. Ils fournissent des données lorsqu’un œil est là pour les lire. En confondant le médium avec le message, le réceptacle avec l’information elle-même, les données avec la décision, nous reléguons de façon cavalière le problème du savoir de de la connaissance au point aveugle de notre esprit.


Intoxique par la croyance d’un avenir meilleur, les individus cessent de se fier à leur propre jugement et demandent qu’on leur dise la vérité sur ce qu’ils « savent ». Intoxiqué par la croyance en une meilleure prise de décision, ils ont du mal à décider tout seuls et bientôt perdent confiance en leur propre pouvoir de le faire. L’impuissance croissante de l’individu à prendre seul des décisions affecte la structure même de leur attente. Autrefois les hommes se disputaient une rareté bien concrète, à présent ils réclament un mécanisme distributeur pour combler un manque illusoire. Le rituel bureaucratique organise la consommation frénétique du menu social : programme d’éducation, traitement médical ou action en justice. Le conflit personnel est privé de toute légitimité, dès lors que la science promet l’abondance pour tous et prétend donner à chacun selon ses manques personnels et sociaux, objectivement identifiés. Les individus, qui ont désappris à reconnaître leurs propres besoins comme à réclamer leurs propres droits, deviennent les proies de la mégamachine qui définit à leur place leurs manques et leurs revendications. La personne ne peut plus de soi-même contribuer au renouvellement continu de la vie sociale. L’homme en vient à se méfier de la parole, il s’accroche à un savoir supposé. Le vote remplace la palabre ; l’isoloir, la terrasse des cafés. Le citoyen s’assoit en face de l’écran et se tait.


Les règles du sens commun qui permettaient aux hommes de conjuguer et de partager leurs expériences sont détruites. Le consommateur-usager a besoin de sa dose de savoir garanti, soigneusement conditionné. Il trouve sa sécurité dans la certitude de lire le même journal que son voisin, de regarder la même émission télévisée que son patron. Il se contente d’avoir accès au même robinet de savoir que son supérieur, plutôt que de chercher à instaurer l’égalité des conditions qui donneraient à sa parole le même poids qu’à celle du patron. La dépendance, partout acceptée comme allant de soi, à l’égard du savoir hautement qualifié produit par la science, la technique et la politique, érode la confiance traditionnelle dans la véracité du témoin et vide de leur sens les principales manières dont les hommes peuvent échanger leurs propres certitudes. Jusque devant les tribunaux, l’expertise rivalise de poids avec les témoignages. L’expert est quasiment admis comme témoin patenté, on oublie que sa déposition ne représente que l’ouï-dire, l’opinion d’une profession. Sociologues et psychiatres accordent ou refusent le droit à la parole, à une parole audible. En mettant sa foi dans l’expert, l’homme se dépouille de sa compétence juridique d’abord, politique ensuite. Leur confiance dans la toute-puissance de la science incite les gouvernements et leurs administrés à se bercer de l’illusion d’éliminer les conflits suscités par une évidente raréfaction de l’eau, de l’air ou de l’énergie, à croire aveuglément aux oracles des experts qui promettent des miracles multiplicateurs.


Nourrie du mythe de la science, la société abandonne même aux experts le soin de fixer les limites de la croissance. Or une telle délégation de pouvoir détruit le fonctionnement politique ; à la parole comme mesure de toutes choses elle substitue l’obéissance à un mythe et finalement légitime en quelque sorte les expériences conduites sur des hommes. L’expert ne représente pas le citoyen, il fait partie d’une élite dont l’autorité se fonde sur la possession exclusive d’un savoir non communicable ; mais en fait ce savoir ne lui confère aucune aptitude particulière à définir les bornes de l’équilibre de la vie. L’expert ne pourra jamais dire où se situe le seul de la tolérance humaine. C’est la personne qui le détermine, en communauté ; nul ne peut abdiquer ce droit. Bien sûr, il est possible de faire des expériences sur des êtres humains. Les médecins nazis ont exploré les limites d’endurance de l’organisme. Ils ont découvert combien de temps l’individu moyen peut supporter la torture, mais cela ne leur a rien révélé sur ce que quelqu’un peut tenir pour tolérable. Fait significatif, ces médecins ont été condamnés sur la base d’un pacte signé à Nuremberg deux jours après la destruction d’Hiroshima, à la veille de celle de Nagasaki.


Ce qu’un peuple peut endurer demeure hors de portée de toute expérience. On peut dire ce qu’il advient d’un groupe d’hommes particuliers placés dans une situation extrême : prisonniers, naufragés ou cobayes. Mais cela ne peut servir à déterminer le degré de souffrance et de frustration qu’une société donnée acceptera de subir à cause de l’outillage qu’elle aura elle-même forgé. Certes, des opérations scientifiques de mesure peuvent indiquer qu’un certain type de comportement menace un équilibre vital majeur. Mais seule une majorité d’hommes de jugement, qui connaissent la complexité des réalités quotidiennes et qui en tiennent compte dans leurs agissements, peuvent trouver comment limiter les fins que se donnent la société et les individus. La science peut mettre en lumière les dimensions du royaume de l’homme dans le cosmos. Mais il faut une communauté politique d’hommes conscients de la force de leur raison, du poids de leur parole, du sérieux de leurs actes, pour choisir librement l’austérité qui garantira leur propre vitalité.


La convivialitè, 1973


NOTES:


[1] On peut ici prendre aussi en considération la notion d’inscripteurs formulée par Derrida et reprise en ce passage par Latour : « […] l’on concentre l’attention sur les schémas ou figures, et l’on oublie les procédures matérielles qui leur ont donné naissance ou, au mieux, on s’accorde pour les rejeter dans le domaine de la pure technique […] ce serait une erreur que de prendre comme point de départ les différences entre ce qui est technique et ce qui ne l’est pas dans la science […] on assiste alors à la transformation de ce qui n’est que le simple résultat d’une inscription en un objet qui colle à la mythologie en vigueur […] sans spectromètre, pas de spectre. En fait, les phénomènes ne font pas que dépendre du matériel, ils sont entièrement constitués par les instruments utilisés au laboratoire. Et l’on a bel et bien construit, à l’aide des inscripteurs, une réalité artificielle, dont les acteurs parlent comme d’une entité objective. Cette réalité, que Bachelard appelle phénoménotechnique, prend l’apparence du phénomène dans le processus même de sa construction par des techniques matérielles » (S. Woolgar / B. Latour, La vie de laboratoire).


[2] « Le monde entre dans le langage comme un rapport dialectique d’activités, d’actes humains : il sort du mythe comme un tableau harmonieux d’essences » (R. Barthes, Mythologies).

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