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Popolo, popoli, populismo & poliptoti

Di Francesco Zevio

[...] so’ l’avanzi de li papi, de li cardinali, de li baroni... e l’avanzi che so’?

Nell’anno del signore



Si sente sempre parlare di popolo. Sempre, sempre e ovunque: leggi per il popolo, manovre del popolo, governo del popolo… e via di seguito. Forse è il caso di ricordare qualcosa, qualche conquista concettuale del pensiero. Prima cosa da ricordare: il concetto di “popolo” è poco chiaro e anzi, essenzialmente ambiguo. Altra cosa da ricordare: la confusione concettuale è ciò su cui si basano illeciti, abusi, raggiri, sperequazioni.

Per cominciare, voglio servirmi di alcune considerazioni contenute nel libro Homo Sacer di G. Agamben, in particolare, di quanto contenuto alla fine della sezione 7.7. A proposito del termine “popolo”, l’autore nota che “[…] nelle lingue europee moderne, esso indica sempre anche i poveri, i diseredati, gli esclusi. Uno stesso termine nomina, cioè, tanto il soggetto politico costitutivo quanto la classe che, di fatto (se non di diritto), è esclusa dalla politica”. L’intrinseca ambiguità del termine in questione deriva proprio dal fatto che egli possa riferirsi al contempo sia ai vincitori che ai vinti di un determinato sistema politico, di una determinata macchina sociale. Attraverso questo termine, per farla breve, è dunque virtualmente possibile ingraziarsi e accattivarsi l’opinione dei vinti rappresentando l’interesse dei vincitori. Macron ne sa qualcosa, da qualche settimana a questa parte [1]. In un regime di abbondanza economica (che sconfina quotidianamente nello spreco) e di democrazia a suffragio universale, quale è il regime dei paesi del primo mondo, i poveri evocati da Agamben sono a mio parere tutte quelle persone che, nel detto regime, non abbiano la cultura, il reddito e il tempo necessari per scegliere che genere di prodotti comprare (qualche esempio: prodotti ecosostenibili e locali invece che fettine da 100 grammi di affettato provenienti da chissà dove in vaschette da 150 grammi di plastica), di che genere di piaceri godere (leggere un buon libro o fare una passeggiata invece che bruciarsi diottrie su schermi, teleschermi e così via costati magari centinaia di euro) e insomma come passare il proprio tempo e come spendere i propri soldi. Chi non possa o sappia fare questo non partecipa coscientemente della vita politica e questo perché, a mio avviso, in un mondo dominato da poteri d’interessi economici, in un mondo dove (sviluppando uno spunto di Marcuse) il governo prende sempre più la forma di amministrazione e la politica quella di economia, l’atto politico per eccellenza consiste nel disporre coscientemente del proprio tempo e del proprio denaro [2].

In ogni caso, tornando al nostro argomento, sussiste sempre una scissione interna al “popolo”: scissione che esprime quella che Agamben definisce come “[…] la struttura politica originale: nuda vita (popolo) ed esistenza politica (Popolo) […] il “popolo” porta, cioè, già sempre in sé la frattura biopolitica fondamentale” [3]. Questa ambiguità è stata acuita dalla Rivoluzione francese, perché a partire da essa “[…] il Popolo diventa il depositario unico della sovranità, il popolo si trasforma in una presenza imbarazzante e miseria ed esclusione appaiono per la prima volta come uno scandalo in ogni senso intollerabile.” Da questa scissione essenziale potrebbe derivare quella coscienza infelice che Marx diagnosticò riferendosi a certi esponenti della classe borghese, dovuta al fatto che la loro classe, con la Rivoluzione, abbia arricchito e incluso sé stessa nei meccanismi del potere (divenendo Popolo) e non il resto della popolazione (che resta appunto popolo). A questo proposito, nota Agamben: “[…] ciò che Marx chiama lotta di classe […] non è altro che questa lotta intestina che divide ogni popolo e che avrà fine soltanto quando, nella società senza classi […] Popolo e popolo coincideranno […]”. Per questo motivo lo sviluppo del capitalismo ha paradossalmente avverato la visione marxista, poiché “[…] il progetto democratico-capitalistico di eliminare, attraverso lo sviluppo, le classe povere […]” ha portato a un progressivo rimarginarsi della frattura tra Popolo e popolo in questi paesi. In questo senso è da intendere l’affermazione di Pasolini, certo provocatoria ma non così lontana dalla realtà delle cose, per cui diceva di vedere ormai borghesi ovunque.

Questa borghesizzazione del primo mondo ha, come controparte, la proletarizzazione del terzo. I vinti per eccellenza restano comunque le masse del terzo mondo perché, se da una parte il “[…] progetto democratico-capitalistico […]” ha per decenni contribuito a rattoppare la frattura tra Popolo e popolo nelle popolazioni del primo mondo (che si ritrovano, volentes nolentes, i vincenti spesso ignoranti e irresponsabili della globalizzazione); ha d’altra parte esasperato la frattura tra queste e le popolazioni del terzo mondo (il vero e proprio popolo, i vinti del mondo globalizzato). Si ripresenta l’immagine del global village: dove le distanze che separano centro e periferia sono nell’ordine di migliaia di chilometri… ma non va per questo dimenticato il popolo del primo mondo: definito appunto da povertà e miseria culturale, ovvero da impotenza politica.

Torniamo a noi: ovvero al “popolo”. Io non credo al “popolo”, mi limito a registrare fatti della realtà. Fatti: dopo quelle montagne si parla una certa lingua, oltre quel fiume le chiese sono costruite in un certo modo, tali paesaggi compaiono nella poesia di tale poeta, tali edifici e monumenti registrano tale serie di eventi storici e così via. Non credo al “popolo” perché non credo all’efficienza e all’efficacia di concetti generali e ambigui nell’afferrare la complessa, sfuggevole realtà. A questo proposito: ero a Bruxelles il giorno degli scontri tra manifestanti anti-Global Compact e manifestanti anti-anti-Global Compact. Popolo ovunque, ovviamente. Qualcuno, al mio ritorno, mi chiede da che parte stessi. “Da nessuna, ero lì per altro.” “Sì sì va bene: ma dovendo scegliere da che parte stai?”. Declinando questa questione al mio attuale pessimismo (cosmico) della ragione, penso che il problema non stia tanto nell’essere pro o contro il Global compact. Ho provato a leggerlo, ma non c’ho capito niente. Mi sembra pieno di termini astratti e nebulosi, di concetti vaghi e imprecisati. Questo grado di astrazione e indefinitezza mi darebbe fastidio in poesia, figuriamoci in un accordo o in un atto dell’ONU. Per questo io non protesterei contro il Global compact, io protesterei contro il suo linguaggio mistificante. È precisamente nel linguaggio che avviene la prima opera di mistificazione del reale: e l’impiego della parola “popolo”, ultimamente, è solo un’ulteriore aggiunta alla sconfinata casistica.




NOTE

[1] Ma anche lì occorrerebbe fare distinguo: lo stato sociale francese è così efficiente da far rampollare una classe di mezzi scioperati che campano di sussidi e cavilli burocratici, che impostano le loro vite su standard e stili di vita da classe alta senza il pensiero di de-borghesizzarsi il cervello ‒ che magari scendono in piazza per difendere il diritto a continuare a vivere in questo modo. Chi è mai stato in un ufficio della CAF sa di cosa parlo.

[3] Non è possibile sviluppare l’itinerario del pensiero agambeniano qui adombrato: basti solo notare, in esso, la registrazione di una profonda frattura.

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