Amore, amore, amore, amore, amore
Ad ascoltare tutto quel che se ne dice
Sembra che intorno ci sia solo gente
Che oltre al grande amore
Non pensa a niente
Luigi Tenco, La ballata dell'amore
Confesso d’essere molto incline al patetismo quando cade l'anniversario della morte di coloro che amo. Ogni 13 febbraio, dal primo risveglio, in casa risuonano le note di Wagner, come quando girovagavo in una sorta di mistico distacco per le calli di Venezia, immerso nella folla del carnevale, ascoltando in cuffia il Parsifal; o qui a Vienna, ogni 26 marzo, la sera mi presento nel luogo dove c’era la casa, accuratamente distrutta in segno di rispetto dai viennesi negli anni 20, dove è spirato Beethoven. Così per Liszt, Pound, Pasolini, Mazzini, il Barone…
Luigi Tenco si inserisce in queste mie ricorrenze con un altro spirito, paradossalmente in un modo quasi più spensierato, il ché può sembrare assurdo visto il tragico epilogo della sua breve esistenza. Ma per me è così.
Negli anni, la figura di Tenco è diventata una sorta di presenza tragica nel panorama della musica leggera italiana, un Convitato di pietra obbligato a mettere una certa soggezione; e persino il ricordo stesso doveva essere associato sempre a qualcosa di inquietante, la sua morte appunto.
Il mio Tenco è diverso, però: non è tanto una figura tragica, quanto un pioniere di un certo distacco e di una certa emancipazione del testo delle canzoni rispetto al gusto in quegli anni predominante in Italia. Lui seppe captare e far sua, assieme a Piero Ciampi, la lezione dei varî chansonnier – e più nello specifico, quella di Jacques Brel – e trasformarla in un qualcosa di nuovo, di specifico alla sua sensibilità e alla tradizione italiana. Almeno, ha tentato di farlo.
Non c’è tragedia nei testi di Tenco, ma reazione rispetto al piattume della società, invito alla disobbedienza e, per certi versi, allo scandalo.
Nel suo primo album del 1962, la canzone Mi sono innamorato di te è forse l’emblema di questa idea di scandalo e precede di molti anni quello che sarà il mantra degli anni del 68, ossia l’amore libero.
Mi sono innamorato di te
Perché non avevo niente da fare
Il giorno volevo qualcuno da incontrare
La notte volevo qualcosa da sognare
Già in questa prima strofa, Tenco, in una mirabile sintesi, ci pone di fronte da una parte al pragmatismo delle convenzioni e i formalismi che obbligano l’amore borghese e dall’altra, al nudo disincanto verso quel romanticismo sfornafigli ad ogni botta tanto caro alla D.C. di allora.
Dello stesso tenore sono i brani Il tempo passò, dove il sentimento che scorre «Sul volto dell'unica donna» e sui sogni di vivere assieme e le ben note grandi promesse, si frange «Su poche parole d'addio» e Una brava ragazza, dove viene descritta ed amata un tipo di donna opposta a ciò che l’immaginario di allora considerava auspicabile per una relazione amorosa; l’immaginaria ragazza di Tenco, infatti, dà baci per la strada davanti a tutti e dice espressamente di sognare di averlo accanto nel suo letto.
Ad onor del vero, non tutti i testi d’amore di Tenco sono di questo tenore, basti pensare ad Angela, Io sì o semplicemente alla meravigliosa Ho capito che ti amo dove la vicenda amorosa viene trattata in modo più canonico, per così dire.
Se questi sono i temi sentimentali ricorrenti, bisogna affrontare brevemente anche quelli più impegnati socialmente, che erano poi la vera aspirazione del Tenco autore.
Sempre nell’album del 62 troviamo la canzone Cara maestra .
Questo brano gli costò una pesante censura, in particolare per la parte di testo dove viene criticata esplicitamente la doppia morale della chiesa nei confronti della povertà.
Tenco, nel 1966, durante un dibattito sul tema "La canzone di protesta" al Beat 72 di Roma, ricordò questo episodio così: «Io, appunto, una volta avevo fatto una canzoncina che diceva: Mio buon curato… eccetera. Non era niente di terribile. Solo qua e là un filino di ironia. Risultato: due anni senza metter piede alla TV»
La canzone, più nello specifico, propone tre differenti ipocrisie:
quella di una maestra che, quando entra il preside, fa alzare in piedi gli alunni in segno di rispetto e invece non fa altrettanto quando entra il semplice bidello;
l’episodio del prete che ha riempito la casa di dio – secondo la vulgata clericale anche casa dei poveri – con marmi e oro, rendendola di fatto non più la casa di un povero;
e quella di un sindaco dal passato fascista (Tu gridavi alla gente/Vincere o morire) che, nonostante non abbia vinto né, dopo aver mandato molta gente a morire al suo posto, sia morto, ancora mantiene il potere.
Penso che sia significativo che la canzone abbia, non tanto subito censura per la denuncia di una certa continuità tra gli uomini del passato regime dittatoriale e quelli, per dirla alla Pasolini, del regime democratico di allora, quanto invece sofferto di una critica che si è incagliata sull’aspetto morale dell’atteggiamento ambiguo della chiesa. Mysterium fidei.
Seguono una serie di LP, rimasti quasi sconosciuti ai più quando l’autore era ancora in vita, nei quali Tenco critica la società dei consumi, ossia: Ballata della moda e Vita sociale (Ballata del progresso).
Ridefinisce, in Giornali femminili, il ruolo della donna come parte attiva della vita politica ed intellettuale della società; mostra, in Se ci diranno e la fatidica Li vidi tornare (che divenne, suo malgrado, la canzone dell’inevitabile compromesso col mondo delle case discografiche e tutto ciò che vi ruotava attorno, per poi essere presentata totalmente stravolta in quel suo unico Sanremo del 67 col titolo Ciao amore, ciao), un marcato senso antimilitarista e pacifista.
La scelta di parlare solo dei contenuti dei testi di Tenco senza mai soffermarmi in alcun modo sugli aspetti più prettamente musicali è una mia scelta precisa, poiché, occupandomi attivamente come compositore di tutt'altro genere, mi sentirei alquanto ipocrita nel fare una qualsivoglia disamina di tipo tecnico rispetto ad un genere musicale che io ritengo semplicemente legato alle espressioni tipiche del mondo della musica popolare. Considero oltretutto i cantautori puri, autori sia del testo che della musica, ascrivibili più alla sfera delle parole e, mi azzardo, dei poeti che strettamente a quello dei musicisti. Detto ciò, non nego in alcun modo che musicalmente molte canzoni di Tenco suscitano in me le medesime emozioni di certi Adagi che la migliore tradizione della musica colta ha saputo donarci, ma questa è una considerazione superflua, a mio parere, e qui serve solo come piccolo appunto per le solite anime belle tra noi…
Lo scopo di questa mia breve introduzione-riflessione su Tenco era volta più che altro a portare alla luce gli aspetti attivi e vitali delle sue canzoni, per sottrarlo il più possibile al piagnisteo a cui ci hanno abituati in questi lunghi anni dalla sua morte. Tenco aveva una solida visione di quello che voleva portare avanti in termini artistici, e il suo seppur breve operato lo ha dimostrato. Era anche, a detta di chi lo ha conosciuto da vicino, un ragazzo estremamente allegro, nel privato; ma l’immagine pubblica e quei due o tre filmati che abbiamo di lui dal vivo, lo hanno consegnato all’immaginario collettivo immortalato per sempre in quella posa sofferente da bello e dannato che tanto piaceva alle riviste da quattro soldi. Penso che Tenco sia stato una sorta di vittima di certi cliché di sempre sugli artisti.
Potrebbe sembrare che io non voglia parlare della sua fine tragica, in parte è vero; a vent’anni scrissi pure una non poesia dedicata al suo suicidio, vi era in quel testo un certo tipo di fascinazione per l’eroe che, pure se a costo della propria esistenza, seppe fare un gesto così clamoroso sulla base delle motivazioni che tutti noi conosciamo bene.
Oggi posso dire che la fascinazione di allora è fortemente sbiadita, non tanto per una mia ipotetica condanna morale del gesto in sé, son pur sempre filosoficamente ascrivibile al gregge di Seneca infatti, quanto sui dubbi, più o meno seri, che in questi anni mi hanno portato a considerare anche la possibilità che non si sia trattato di un atto poi così volontario.
Tra le varie teorie che ho avuto modo di approfondire, scartando la pista della gelosia e quindi direttamente l’ex marito di Dalida, c’è ne una per cui Tenco, da lì a poco, si sarebbe ritirato dalla scena musicale per intraprendere la carriera politica, forse nel campo dei socialisti, almeno, PARE.
Le prove a sostegno di tutto ciò sono a mio parere molto fumose, e francamente ho sempre trovato esagerate certe congetture, in quanto non mi sembra che la figura di Luigi Tenco, in quel preciso momento storico, avesse un’ importanza, o anche solo un seguito, tale da giustificare un omicidio. Tenco era un emarginato, nel mondo della contestazione del suo tempo.
Certo, in un'Italia come quella di allora, dove un po’ di Petrolio ti poteva far scivolare addosso una macchina in retromarcia fino a farti scoppiare il cuore; o dove certe pastiglie a forma di proiettile, donate dal ministro degli interni per il mal di testa, si trasformavano dopo poco in proiettili reali; o rimanendo nel campo dei cantautori, dove un certo santo vestito d'amianto poteva farti sbattere contro un platano.
Tutto è possibile: invito il lettore a farsi una sua opinione.
Infine, è nelle mie intenzioni, per una sorta di giorno della memoria laica, omaggiare, ogni 27 gennaio, Luigi Tenco attraverso altri cantautori, sia italiani che internazionali. Magari, e ben volentieri, lasciando spazio a chi è più competente.
Jozef F. Pjetri
Compositore e pianista, è Co-fondatore del movimento Cultura in Atto. Vincitore del Primo premio Concorso F. Liszt di Bellagio 2011 per Pianisti-Compositori, è stato finalista al Concorso A. Dvorak di Praga 2014, ed ha avuto la segnalazione (con esecuzione e pubblicazione) al Concorso di composizione per pianoforte Città di Spoleto 2017. Tiene regolarmente concerti e conferenze, ogni tanto scrive non poesie. Attualmente milita a Vienna.
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