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GLI ATTREZZI DEL PENSARE PARTE III

di Francesco Zevio

*note a piè pagina


Cominciamo così: cominciamo con un biologo estone dal diciannovesimo secolo (e dal nome particolarmente ostico, anche solo visivamente, in area linguistica neolatina) che s’appresta a svolgere un esperimento sulle api.

Se non ricordo male, l’esperimento cominciava nel più puro idillio, con un’ape spensieratamente intenta a succhiare miele. A un certo punto, nel corso di questa pacifica attività, le viene ahimè reciso l’addome. L’ape, tuttavia, sembra quasi non accorgersene… continua impassibile, imperterrita a succhiare e succhiare e succhiare miele come niente fosse, mentre il liquido già cola a terra scorrendo lento fuori dal suo corpicino ormai mutilo dell’addome. Conclusione del biologo: le api sono sopraffatte da alcuni stimoli ambientali tanto imperativi da assorbire la totalità dei loro sensi, al punto da finire col stordirle in essi. Tali stimoli furono definiti da Uexküll (ecco l’ostico nome) con il termine di disinibitori.


Questo esperimento e le sue supposte implicazioni furono a loro volta riprese prima da Scheler e in seguito da Heidegger per sfociare nel concetto di Weltarmut, di povertà di mondo. Volendo riassumere: secondo questo concetto le api, gli insetti, tutti gli animali, ogni singola pianta… tutti i viventi sono sensibili a una gamma di stimoli estremamente ridotta che li acceca a tutto il resto. Solo l’uomo ha la possibilità virtuale di lasciarsi attrarre e condurre da una rosa di stimoli molto più varia e differenziata, solo l’uomo è autenticamente aperto al mondo.


Su queste considerazioni, un piccolo appunto.

Un piccolo appunto perché, a mio avviso, si può considerare che anche l’uomo abbia un suo disinibitore. E questo disinibitore, del resto squisitamente umano, è il linguaggio. L’uomo costruisce il mondo, ha esperienza del mondo, si stordisce nel mondo attraverso il linguaggio: quindi attraverso un sistema simbolico. Ma cosa significa questo? Oltre al discorso generale sulle varie grandi narrazioni (ideologiche, politiche, religiose…) reso ormai popolare per il frequente ricorso a concetti quali narrazione e storytelling, ciò significa, più specificamente, che persino le idee ed i concetti che ci appaiono come più immediati e trasparenti sono invece piuttosto complessi, torbidi, opachi: e questo perché essi sono tramati e orditi di fatti di linguaggio [1]. Cosa, questa, inevitabile: stiamo infatti parlando del disibinitore della nostra specie. Non essere coscienti di questa tramatura ci impedisce nell’esercizio dell’intelligenza, esercizio individuale in cui si realizza l’esperienza della libertà, preludio alla sua pratica [2].



Ludwig Wittgenstein, 1922

Vi sono due concetti, due “cose” o entità in senso lato che sono, in questo periodo storico, particolarmente prone ad essere interpretate come semplici e immediate quando invece non lo sono affatto. Queste due cose sono la vita e il corpo.

Il problema principale è il seguente: noi tendiamo a considerare quanto espresso rispettivamente dalle parole vita e corpo come fatti estremamente limpidi e patenti, senza zone d’ombra. Ovvero: tutti sanno cosa sia la vita – e dunque cosa non lo sia – tutti sanno cosa sia il corpo e nessuno potrebbe nutrire dubbi, a riguardo, proprio come nessuno potrebbe nutrire dubbi su cosa siano una penna, una tazza, una moka o un quaderno. Il punto è che l’uomo non vive in un tale Eden linguistico: un Eden in cui le parole afferrano e rispecchiano realtà oggettive, riproponendo esaustivamente per tramite di una traduzione linguistica una qualche loro supposta sostanza o essenza. Citando due concisi passi del Tractatus di Wittgenstein: noi ci creiamo immagini dei fatti [wir machen uns Bilder der Tatsachen] e l’immagine è un modello della realtà [das Bild ist ein Modell der Wirklichkeit]. Le parole – queste nostre quotidiane forme d’incantesimo e malia – le parole attraverso cui l’uomo descrive e significa il mondo non rispecchiano fatti o realtà oggettive, non catturano una “cosa” nella sua essenza o verità, ma tendono piuttosto a organizzare significati, idee e valori intorno a un centro di gravità. Possiamo immaginarle così: ogni parola come una sorta di sole che organizza e regola – tramite la propria massa, quindi per azione della gravità – un sistema di altri corpi celesti “più leggeri”, di altre idee e significati. Una parola è insomma una sorta di costellazione, di sistema stellare formato da un coagulo d’idee organizzate intorno a una parola-idea di massa superiore, che attira e subordina a sé le altre. Un po’ come in questa poesia di Gottfried Benn:


Gottfried Benn, 1934

Ein Wort, ein Satz – aus Chiffren steigen

erkanntes Leben, jäher Sinn,

die Sonne steht, die Sphären schweigen,

und alles ballt sich zu ihm hin.


Ein Wort – ein Glanz, ein Flug, ein Feuer,

ein Flammenwurf, ein Sternenstrich –

und wieder Dunkel, ungeheuer

um leeren Raum um Welt und Ich.


Una parola, una frase – e dal segno

vita decifrata, fulmineo il senso…

il sole immoto, le spere in silenzio,

e tutto vi si addensa intorno.


Una parola – lampo, volo, incendio,

un getto di fiamme, uno squarcio d’astro…

e di nuovo il buio – immane, tremendo

intorno al mondo e all’Io, nel vuoto spazio.


Ora: il modo in cui tali sistemi si organizzano non è naturale, non sorge in alcun modo dal rispecchiamento di una fatalità o di un qualche ordine oggettivo e veritiero. La loro formazione e il valore che esse assumono nelle società umane segue piuttosto lo svolgersi e il modificarsi del processo storico: questi sistemi non sono per nulla fissi.


Ovviamente non tutte le parole hanno la stessa massa, non tutte le parole hanno la stessa capacità di organizzare sistemi attorno al loro centro di gravità: è abbastanza chiaro come le parole che esprimono oggetti concreti, in particolare oggetti che sono prodotto dell’industria e del lavoro umano, non abbiano un grande peso.

Le parole con massa maggiore sono le parole che esprimono entità astratte: parole come anima, spirito, verità, dio… parole che hanno infiammato popoli e modificato la storia di continenti, nel cui nome si sono compiuti gli atti più alti e straordinari come i più efferati e criminali. Ma queste parole sono abbastanza facili da sgamare e smagare [3]. Non siamo nati nel liquido amniotico delle culture che le ha prodotte, non ci vuole poi così tanto a capire che intorno a loro possono organizzarsi sistemi piuttosto arbitrari: e in ogni caso, tali sistemi sono piuttosto inficiabili dall’azione caustica e demistificante del pensiero critico come andato sviluppandosi in Occidente. Ben più subdole, ben più ingannevoli sono quelle parole (e relative costellazioni) per così dire ibride: parole in cui non è così agevole dissociare analiticamente tra concreto e astratto, tra materiale e immateriale. A questa categoria pertengono un po’ tutte le grandi parole d’ordine ideologiche fuoriuscite dalla cultura illuministica e razionalista – parole che vanno da popolo, nazione, uguaglianza fino a classe, razza, benessere, progresso, salute – parole che questa stessa cultura ha contribuito storicamente a formare tramite le modalità proprie del suo discorso e una sua particolare gerarchia epistemica [4].


Le parole che andremo a considerare nei prossimi articoli, i sistemi di senso gravitanti intorno ai concetti di vita e corpo, fanno parte di questa categoria ibrida.






NOTE


[1] A proposito di idee e concetti si può senza dubbio affermare quanto Marx affermò a proposito delle merci:


Una merce appare a un primo sguardo come una cosa ovvia, triviale. La sua analisi dimostra che è una cosa estremamente complessa, piena di sofisticherie metafisiche e capricci teologici [eine Ware scheint auf den ersten Blick ein selbstverständliches, triviales Ding. Ihre Analyse ergibt, daß sie ein sehr vertracktes Ding ist, voll metaphysischer Spitzfindigkeit und theologischer Mucken].


[2] La libertà è prima di tutto un fatto di gusto, bisogna farcisi il palato… e l’esercizio dell’intelligenza è precisamente questa educazione del palato.


[3] Sgamare e smagare: ovvero demistificare.


[4] Il concetto di gerarchia epistemica vuole riferirsi al rapporto di prestigio che intercorre, in un dato periodo storico, tra il vario sapere prodotto dalle varie discipline. Ogni disciplina produce infatti un sapere proprio secondo metodi propri: a questi metodi, a questo sapere è quindi accordato un certo grado di prestigio che entra automaticamente in rapporto col grado di prestigio accordato a metodi e sapere di altre discipline. I vari rapporti che vengono a definirsi in questo modo formano quella che abbiamo definito come gerarchia epistemica, quindi una gerarchia di prestigio riguardo ai metodi ed alla produzione di sapere (episteme, in greco).

Questo prestigio, questi “rapporti di forza” che intercorrono tra le diverse discipline impegnate nella produzione di sapere variano storicamente. Per esempio: nel corso del Medioevo il sapere prodotto dalla teologia godeva di un immenso prestigio rispetto a quello prodotto dalla disciplina medica, né un fantomatico uomo medio medievale doveva considerare seriamente la possibilità che le cose dovessero o potessero cambiare. Poi gli anni passano… gli anni cadono, cadono e si ammassano come foglie alle radici dei millenni – nuove ruggenti generazioni di bipedi implumi s’industriano, s’ingegnano, si riproducono, s’ammazzano, si fanno e disfanno e a poco a poco vanno modificandosi anche i sistemi di valori… fino a che paf, nell’anno 41 dopo Chakrabarty (2021 d.C.) il rapporto di prestigio tra teologia e medicina è completamente rovesciato.


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