Di recente mi è capitato tra le mani un libricino di Andrea De Benedetti intitolato “Così non schwa”, in cui, come è intuitivo comprendere, si affronta il tema dell’inclusività da un punto di vista linguistico e in molti passaggi, grammaticale, toccando il delicato tema dell’identità di genere. Pare piuttosto logico che qui la questione venga sostanzialmente affrontata per dare una forma concreta a ciò che, soprattutto ultimamente, è diventata una questione ideologico-valoriale, a tratti veicolata politicamente. Sia chiaro: non si giunge né ad una facile ed immediata soluzione, né si presentano motivazioni personali di natura soggettiva (per non dire identitaria); basta d’altronde, anche secondo questo autore, porsi le giuste domande in merito. Direi che due aspetti, in questa lettura, e nella logica della riflessione linguistico-culturale, ho trovato fondamentali: il “come” vada affrontato tale percorso (cioè con quali mezzi e strumenti, a quale prezzo) e la volontà di riprendere un dibattito interessante ma sottostimato come quello attorno all’inclusività (che tanto viene utilizzata datticamente parlando oggi). Siccome questo libro già affronta chiaramente e ampliamente il primo punto, io preferisco aggiungere due note al secondo, portando l’attenzione, ancora una volta, alle modalità con cui si presenta il problema “inclusione” e ai percorsi materiali, pratici con cui si prova (o non si prova) a considerare il tema. Il titolo di questo breve articolo chiarisce già la mia posizione in merito e vuole essere una provocazione rivolta a chi crede che le questioni di valore etico, morale e culturale possano davvero trovare un’applicazione consona nella vita reale in questo Paese. Che si tratti di questioni di gender o di inclusione scolastica, infatti, emergono enormi difficoltà nelle soluzioni realistiche con cui un cittadino o una persona può affrontare (diciamo pure “quotidianamente”) la cosa.
I dati grafico numerici in merito ai flussi di immigrazione (fino al 31 ottobre 2022) parlano chiaro: i minori stranieri non accompagnati che sono giunti in Italia fino alla suddetta data sono 9.930 e la situazione relativa al numero dei migranti sbarcati dal 1 gennaio 2022 al 4 novembre 2022 (comparati con i dati riferiti allo stesso periodo degli anni 2020 e 2021) e il Dipartimento della Pubblica Sicurezza fa emergere un progressivo, ingente aumento di entrate di persone straniere nel nostro Paese fino al raggiungimento di 87.000 presenze nell’anno corrente. Di fronte a questi numeri, mi chiedo cosa proponga il Ministero dell’Istruzione come possibili vie per l’accoglienza e l’integrazione di questi bambini e ragazzi, vista la sempre maggiore quantità di alunni stranieri nelle nostre scuole, ma purtroppo mi ritrovo a fare i conti con un documento risalente (e fermo) al 2014, comprendente le Linee Guida in merito. Qui si fa uso di termini quali “multiculturalità”, “scuola internazionale”, ma anche di “competenze e formazione iniziale” mirata a favorire uno scambio culturale e linguistico di crescita per tutti. Peccato che la formazione dei docenti a riguardo si fermi alla Pedagogia Interculturale di chi si laurea solo in Scienze della Formazione Primaria e che l’inserimento di questi alunni spesso avvenga con tempi e modalità non idonee allo svolgimento di un percorso continuativo e coerente con quello del Paese da cui provengono (su cui tutti siamo scarsamente informati). Non necessariamente si deve far riferimento ai Paesi extra UE, infatti un’altra saliente questione è il materiale di supporto che le scuole possiedono e che soprattutto in questi ultimi due anni e mezzo è risultato fondamentale per l’accoglienza scolastica dei bambini e dei ragazzi ucraini. Ho visto corsi di alfabetizzazione altamente necessari in moltissime scuole, ormai, essere gestiti grazie alla buona volontà di docenti che necessitano di completare l’orario settimanale e si mettono a disposizione dei “propri” e degli “altrui” alunni; casi di inserimento obbligatoriamente stabilito in base all’età scolare, indipendentemente dalla loro conoscenza della lingua italiana e dal loro livello di istruzione scolastica. Ho visto insegnanti disarmati di fronte alle già numerose difficoltà presenti nelle loro classi, alle quali si aggiunge una ulteriore difficoltà in molti casi imprevista e imprevedibile; ho visto chiudere scuole elementari per insufficienze numeriche (e quindi classi che non si sarebbero potute formare) a causa di alunni solo stranieri che le frequentavano e che creavano, a detta di alcune famiglie italiane, dei divari culturali e sociali non da poco (tradizioni, usi e costumi radicalmente diversi e non condivisi dalle famiglie immigrate). Ho amiche e amici che vivono in Italia da molti anni che non sono ancora riusciti ad ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno o il documento stesso, dal momento che la procedura è burocraticamente infinita. E poi ci sono le infinite lotte ideologiche che scaturiscono da prese di posizione radicali in merito ai ruoli maschili e femminili rigidamente marcati in alcune Nazioni.
Sia chiaro che c’è un rovescio della medaglia (come sempre) che non va sottovalutato e che palesa aspetti positivi e costruttivi nella dimensione di scambio e di relazione professionale, etica, culturale e linguistica a cui ho preso parte io stessa fin dalla scuola elementare e che mi ha non solo arricchito, ma anche permesso oggi di guardare con occhi diversi e senso critico la realtà in cambiamento che sto vivendo. Perché, parliamoci chiaro, è solo grazie agli sforzi di alcune persone “comuni” che le cose non hanno preso una piega apocalittica. Di certo nessuna classe politica ha mostrato l’intenzione di farsi carico della situazione con soluzioni pratiche, ed economicamente efficaci, soprattutto lì dove l’Europa detta legge sulle decisioni da prendere, ma lo fa sempre con le stesse modalità e a scapito dei cittadini. Quindi, volendo tornare al pensiero di De Benedetti, che mi ha fornito l’occasione di queste riflessioni su argomenti così complessi ed importanti, bisognerebbe chiedersi quali siano le strade giuste per «”normalizzare” la percezione di un fenomeno» sapendo che si corre il rischio di sottolineare per l’ennesima volta «l’”eccezionalità” di una condizione»[1].
1. Andrea De Benedetti, Così non schwa – Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo, Einaudi, 2022, pag. 58.
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