di Francesco Zevio
Creare una nuova cultura non significa solo fare individualmente delle scoperte originali, significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte, socializzarle per così dire e pertanto farle diventare base di azioni vitali, elemento di coordinamento e di ordine intellettuale e morale.
A. Gramsci
Fino a ieri – e già oggi ti pare impossibile pensarlo – fino a ieri risiedevi in un luogo dove l’alba profuma di gariga e rugiada e notte che dilegua, un luogo in cui le uniche notizie rilevanti riguardavano pericoli d’incendio e pronostici di pioggia, presenza di ratti nei dintorni della dispensa, avvistamenti notturni o tracce di cinghiali che minacciano le nuove culture di carote. Basta tornare a toccare il cellulare in treno ed ecco – la ragnatela consueta, la bava viscosa dell’informazione. Fra tutte le notizie una, i funerali di Piero Angela, comincia tuo malgrado a farti inanellare una considerazione dietro l’altra, galeotto il Saggiatore di Galileo che da qualche settimana leggi con furore, rinfrancato da un bagno gelido nel canale dopo una mattinata d’operazioni di diserbo e di raccolta sotto un sole che ti brucia anche il sudore.
Esistono due modi essenziali di divulgazione del sapere. Il primo modo è quello che si cura di trasmettere al volgo – per forza profano, riguardo questioni su cui non è informato – gli elementi indispensabili di grammatica e di sintassi propri a un certo sapere, elementi che permettono a tale sapere di formulare i suoi enunciati, quindi di definire i confini e il valore proprio della sua conoscenza. Il secondo modo è sgrammaticato, sciorina enunciati senza dare né rendere conto della loro articolazione, del modo in cui storicamente sono andati formandosi.
Ogni sapere, per dirla alla Latour, esprime enunciati secondo un modo di veridizione che gli è proprio e che ne determina il valore. La divulgazione più sincera e necessaria, a mio avviso, è quella che si sforza di mettere in luce tale modo, di ripercorrerne le tappe essenziali. Questo è quanto di meglio può già cogliersi, in termini universali, nel discorso galileiano. Esso mirava a far comprendere che, se si vuole produrre conoscenza di un determinato valore circa i fenomeni naturali (ovvero, nel caso di Galilei, il valore dell’oggettività dovuto al carattere predittivo e strumentale di tale conoscenza), occorre riformulare da capo a piedi il modo di veridizione secondo cui si formulano enunciati circa tali fenomeni (ovvero, sempre in questo caso, riconfigurandolo in termini geometrici e matematici). Ma questo valore, risultato di un certo modo di veridizione, non deve pisciare fuori dal suo vaso. Eppure è questo ciò che spesso, troppo spesso, accade. E via con la religione che pesta i piedi alla scienza, con la scienza che pare pontificare da un soglio che non esiste, con la politica che si ormonizza tramite dosi di scienza, con l’economia che si esprime per dogmi scientifici… tutti errori di categoria, nessun rispetto ai diversi modi di veridizione e tanto, tanto, tanto trambusto e share e baruffare di gallinacei.
(A questo proposito, sia qui detto fra parentesi, l’informazione può essere definita come proliferatore degli errori di categoria… e questo perché essa è necessariamente mutila, atomica, parziale, di modo che il rischio di moltiplicare questo tipo d’errore le è congenito, chi si occupa d’informazione dovrebbe essere più cauto di Cartesio e più sottile del doctor Scoto…)
Ogni conoscenza è scabra, irregolare, imperfetta e parzialmente oscura, proprio come la superficie della luna osservata da Galileo. La sua autentica topologia può rilevarsi solo considerando il modo di veridizione che le è proprio, quindi il suo processo di produzione. Un buon divulgatore lo sa, non tenta di spacciare queste asperità per una superficie liscia e perfettamente luminosa, immacolata. La conoscenza è piena di macchie e patacche e altre scorie, perché esce da un processo di produzione. Ma alcuni divulgatori, giornalisti, opinionisti, pubblicisti, lobbisti e insomma qualsiasi affamato cronico che in qualche modo possa cavarci una qualche briciola di pane, sono interessati a farcela apparire come qualcosa di naturale, di evidente e quasi rivelato, di modo che il processo della sua produzione resti per noi completamente oscuro, e una certa conoscenza ci appaia con la naturalezza e lucentezza di una lattina di coca al neon di un supermercato.
(E pure questo sia qui detto tra parentesi: supermercati e affini sono i palchi, gli altari, i luoghi programmaticamente addetti all’obliterazione, quindi alla naturalizzazione dei processi produttivi propri dei beni industriali…)
Il problema è che, se si parla di scienza senza dar conto del suo modo di veridizione, quindi delle asperità e delle oscurità proprie al suo modo di produzione, si vanno ammontando nel pubblico dei profani strati su strati d’ignoranza, terreno perfetto per il pullulare della superstizione. Per dirla alla Whitehead: “ogni scienziato, per difendere la sua reputazione, deve dire che odia la metafisica… il che significa ch’egli odia il fatto che la sua metafisica sia criticata.” (E rimandiamo il lettore di buona volontà a questo articolo:
Se chi parla di scienza vuol difendere un certo valore della conoscenza scientifica – l’oggettività – può farlo in vari modi, in particolare, può scegliere se corazzarsi dietro una qualche forma di certezza, o se richiamarsi alla fiducia, al credito. Se sceglie la certezza, è dispensato dalla fatica di rendere conto del processo di produzione e del modo di veridizione proprio al sapere scientifico. La luna resta perfettamente liscia e incorruttibile. Ma se invece si sceglie la fiducia, il credito in una particolare prassi del sapere, allora bisogna rimboccarsi le maniche e parlar chiaro, bisogna tracciare una carta quanto più sincera e precisa possibile di valli e montagne disseminate sulla superficie lunare, bisogna sviluppare un discorso capace di sviluppare, nei profani, i rudimenti d’orientamento necessari a far fronte a tali asperità.
È questo ciò che alcuni cervelli robusti cresciuti in una cultura storico-letteraria, senza precipitare nell’irrazionalismo dei più molli, rimproverano a certi esponenti delle scienze dure (e non solo: vedi la lista degli -isti poco sopra) che hanno interesse a dissimulare il modo di veridizione proprio al loro sapere: perché quando i profani si renderanno conto che gli enunciati della razionalità scientifica spacciati per certezze e verità assolute non sono poi così certi né assoluti – quando capiranno che la luna non è liscia e immacolata, ma scabra e irregolare – quando i signorini soddisfatti, i bimbi viziati a scienza e incoscienza di cui scrisse Ortega y Gasset cominceranno a essere viziati e insoddisfatti, allora saranno più propensi a gettarsi e lasciarsi trascinare in forme d’irrazionalismo, piuttosto che seguire il percorso accidentato del discorso, del logos, della ragione senza “r” maiuscola, ovvero senza l’infausta e ingombrante panoplia della certezza.
Maledetti telefoni… peggio dei cinghiali.
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