di Carlo Tosato
Emozione e Coscienza
È passato un po’ di tempo dall’ultimo articolo che ho scritto su questo argomento immenso, ma sento questo capitolo come forse il più importante e il più complesso che abbia mai scritto. Inoltre sento che mi ci vorrà ancora molto, molto tempo per non solo capire, ma anche sentire quello che sto imparando riguardo le emozioni.
Sono onnipresenti, sono la base della nostra sopravvivenza e del nostro ragionamento, sono ciò che ci permette di sentire ancor prima di capire. Sono uno degli strumenti più potenti che abbiamo nel nostro mondo interiore e nel nostro milieu interno. Sono ciò che ci permette di vivere e di sentire di vivere, ci aiutano a scegliere i ricordi più importanti da tenere nella memoria a lungo termine, a discriminare gli eventi esterni e interni che meritano o necessitano del nostro focus di attenzione, e molto, molto, moltissimo altro.
Le emozioni non sono esclusive solo per l’uomo, l’evoluzione le ha “create” molto prima di noi, e moltissime altre specie animali possono sentirle, esattamente come noi, con l’unica eccezione che noi abbiamo aggiunto uno step in più: possiamo sentire il sentimento delle emozioni; in altre parole, siamo coscienti di esse.
Verrebbe da immaginarsi che queste entità, vista la loro estrema potenza e importanza, siano da lungo tempo oggetto di ricerca, ma appena dopo che alcuni curiosi si sono cimentati nello studio delle emozioni, cominciano poco a poco a rendersi conto che una ricerca scientifica seria e affermata su questo argomento è a dir poco recente. Si parla di pochi decenni. Ci sono molti fattori in gioco che hanno determinato questo “ritardo”, primo fra tutti l’enorme sviluppo tecnologico degli strumenti di misurazione e di ricerca ottenuto in questi ultimi anni, che ora permettono di andare ad analizzare quelle parti della nostra mente che prima era praticamente impossibile neanche vedere; tuttavia, esiste anche un fattore culturale, che affonda le sue radici nel netto dualismo cartesiano tra res extensa e res cogitans, ossia nella chiara divisione tra anima e corpo, o mente e corpo, o coscienza e corpo, oppure ragione e istinto. Le emozioni non erano ritenute degne dell’enorme interesse riservato invece alla nostra ragione, considerata il vero asso vincente del successo dell’essere umano, e ciò per cui vale la pena focalizzarsi e spendere le proprie energie per meglio comprenderla. Le emozioni, considerate appartenenti al corpo, risiedevano nella parte evolutivamente “più vecchia” dell’uomo, quella che alcuni avranno percepito come un fardello che ci lega ancora e malauguratamente al mondo animale.
Tale fattore culturale in alcuni casi si è tramutato in forma mentis, a sua volta cementificata in bias, protrattasi per lungo tempo, tra cui gran parte del secolo scorso. Questo bias ha dominato gran parte del mondo accademico e intellettuale per lungo tempo. Non ha dominato tutti, però. Come sempre accade, da un piccolo gruppo di studiosi che avevano cominciato a mettere in dubbio questa divisione manichea del nostro organismo, si è arrivati ai giorni nostri, con istituti dedicati esclusivamente a questa tematica, con una fervente ricerca a riguardo, atta a dimostrare che nulla è così tecnocraticamente diviso nel nostro corpo, e ogni cosa che è presente nel nostro organismo è fondamentale e vi partecipa con un numero così alto di interconnessioni che io stesso stento ancora a crederci.
Sento che questo nuovo ramo della ricerca ci sta portando finalmente nella giusta direzione, perché più lo si approfondisce, più domande sorgono. A nuove risposte sorgono nuove domande, sempre più specifiche ed importanti.
Un autore che più mi ha dato questa fantastica sensazione è Antonio Damasio, nel suo libro Emozione e Coscienza, edito in Italia nel 2000; esso sarà il principale focus di analisi del prossimo paragrafo. Damasio inoltre prima di questo libro aveva pubblicato L’Errore di Cartesio, dove dà il via a quel processo di smantellamento di quel bias che aveva contaminato il mondo accademico i decenni precedenti spiegato nelle righe di cui sopra.
Cosa sono dunque le Emozioni?
Ciò che maggiormente ci contraddistingue dalle altre specie è la capacità di legare emozioni a idee complesse, valori, principi e giudizi. Per idee complesse si intendono anche idee astratte, immagini; in breve: configurazioni mentali. Le emozioni sono una reazione alle nostre relazioni con il mondo esterno, con qualsiasi oggetto che entra in contatto con noi e il nostro mondo interno. Molto spesso anche il nostro mondo interno è l’oggetto delle nostre emozioni, basti pensare a quando ci ammaliamo, quando da qualche parte nel nostro organismo succede qualcosa che potrebbe compromettere il nostro equilibrio psicofisico, o al contrario quando va tutto bene e ci sentiamo bene. Esiste però un confine, rappresentato dal nostro stesso corpo, che rende necessario distinguere i sentimenti dalle emozioni: le emozioni sono sostanzialmente pubbliche e dirette verso l’esterno (le espressioni facciali, il livello di sudorazione, il linguaggio del corpo e i comportamenti che possiamo notare nelle altre persone), i sentimenti sono privati e diretti verso l’interno, ossia ciò che proviamo e sentiamo dentro di noi.
È una distinzione molto importante che col senno di poi potrebbe risultare scontata. Quando fingiamo un’emozione che in realtà non stiamo provando è proprio grazie a tale distinzione che ci permette di servirci di specifiche configurazioni facciali, posturali e comportamentali, globalmente condivise, e riprodurle, sebbene noi non stiamo sentendo affatto quella emozione.
Le emozioni quindi iniziano ad avere effetto sulla mente tramite i sentimenti, ma è solo attraverso la coscienza (il senso di sé) che noi siamo in grado di rappresentare tali sentimenti ed esserne coscienti, per ottenere un effetto duraturo.
Ho messo in corsivo nella frase precedente due parole non a caso, anzi, visto che rappresentano due delle tre fasi attraverso le quali noi elaboriamo l’emozione:
Lo stato di Emozione, si realizza non consciamente
Lo stato del Sentire, può essere rappresentato non consciamente
Lo stato del Sentire reso Conscio, ossia reso noto a noi e al nostro organismo
L’importanza delle emozioni si può desumere in primo luogo da queste tre fasi, visto che da fenomeni meramente biologici a livello base, vengono dapprima percepiti e sentiti a livello non-conscio, dove già si può attuare una risposta a tali fenomeni, e infine vengono resi consci, rendendo partecipi quelle regioni del nostro cervello adibite alla formulazione di ragionamenti complessi a lungo termine. Ciò vuol dire che le emozioni sono un indicatore talmente importante per la nostra sopravvivenza che li conserviamo nella nostra memoria a lungo termine al fine di elaborare risposte sempre più mirate ed efficaci.
In secondo luogo, le emozioni sono talmente importanti e ben radicate nel nostro cervello che ci sono regioni specifiche dello stesso che si occupano in toto nell'indurre emozioni (tronco encefalico, ipotalamo, prosencefalo basale, amigdala, cingolo anteriore, regione prefrontale ventromediale). Questi siti inoltre partecipano in misura diversa all'elaborazione delle diverse emozioni e ogni emozione ha uno schema caratteristico e zone diverse, ma una caratteristica comune è che tutte queste zone si trovano nella parte che per prima entra in contatto con i messaggi ricevuti dal corpo (il tronco encefalico primo fra tutti).
E qui viene una delle rivelazioni più importanti per me, e su cui Damasio ha battuto di più il chiodo:
la coscienza e le emozioni non sono separabili (infatti quando la coscienza è sospesa di solito lo sono anche le emozioni);
la coscienza inizia come sentimento, che accompagna la formazione di un’immagine all'interno dell’organismo vivente e che marca queste immagini come nostre;
le emozioni sono parte integrante della ragione.
L’ultimo punto merita un’ulteriore approfondimento. Dalle ricerche degli ultimi decenni è emerso che le emozioni si rivelano parte integrante dell’omeostasi, l’insieme delle regolazioni fisiologiche che rendono l’equilibrio di un organismo. Uno dei compiti principali del nostro organismo è di mantenere o adattare il nostro corpo all'equilibrio migliore per noi tra le infinite varianti che può configurarsi, al fine di aumentare al massimo le nostre probabilità di sopravvivenza. L’omeostasi non è solo una chiave di accesso alla biologia della coscienza, ma lo è anche per la musica e i suoi effetti sul nostro organismo (finalmente parlo anche di musica). In questo articolo si indaga la relazione tra polimorfismi di particolari amminoacidi (tra cui AVPR1A) e la propensione alla musica, alla sua predisposizione e al suo allenamento. Ciò che trovo interessante è che molti di questi amminoacidi, l’AVPR1A (recettore) e l’AVP (ormone) in testa, partecipano attivamente all'omeostasi del nostro organismo. Più in generale, il fare musica o ascoltare musica crea nel nostro organismo dei cambiamenti del nostro stato psicofisico, andando quindi ad intaccare la nostra omeostasi, il nostro equilibrio interno.
Ritornando però a un discorso più generale, è sorprendente sapere che le emozioni sono una delle basi dei processi di ragionamento e decisione, e che quindi la riduzione dell’emozione nuoce alla razionalità tanto quanto l’eccesso, in netto contrasto con ciò che si affermava nei secoli precedenti, dove l’emozione veniva considerata sempre nociva al ragionamento. Le emozioni e i sentimenti quindi sono fondamentali per la sopravvivenza. Sentire è un incentivo a dare retta all'emozione. Se sentire serve a sapere di sentire, il sapere di sentire serve a pianificare risposte specifiche e adattive.
Sotto la Luce (cap. 11 di “Emozione e Coscienza” di A. Damasio)
A conclusione di questo piccolissimo excursus (sì, perchè ho trattato solo uno dei numerosissimi temi contenuti nel libro di Damasio) vorrei riassumervi le bellissime parole contenute nell’ultimo capitolo, dove l’autore tira le somme dell’enorme mondo interiore che è riuscito, spero, a scoprire e a condividere.
La coscienza inizia come sentimento e si sente come sentimento. Sotto la luce della coscienza arriviamo ogni giorno a conoscere più cose, in maniera dettagliata. Abbiamo creato il nostro senso del bene e del male e le nostre norme di comportamento dopo essere diventati coscienti della nostra natura e di quella dei nostri simili. La luce della coscienza guida la creatività e il processo di creazione: musica, letteratura, scienza, tecnologia, sono tutte comandate o ispirate alle rivelazione dell’esistenza offerte dalla coscienza. Le invenzioni stesse hanno un effetto sull’esistenza rivelata. L’influenza è circolare: esistenza, coscienza, creatività.
Il dramma della condizione umana deriva direttamente dalla coscienza, è il prezzo da pagare per condurre una vita migliore, Non solo il rischio, il pericolo e il dolore, ma anche conoscere il rischio, il pericolo e il dolore; il fatto di conoscere il piacere e sapere quando è assente. Il costo di un’esistenza migliore è la perdita dell’innocenza nei confronti della stessa esistenza. Ma ci sono forniti anche gli strumenti per guidare la creatività e volgere in meglio l’esistenza umana, per far svolgere alla coscienza il suo ruolo regolatore, omeostatico, nei confronti dell’esistenza. Conoscere aiuterà ad essere. La civilità si è occupata di alleggerire il fardello dell’esistenza e di poter sempre migliorare, grazie alla coscienza.
È arrivato il momento di parlare di Musica
Boulez comunque mi ha causato una dissonanza cognitiva senza fine, perché lui era senza dubbio un musicista esperto, aveva un dono per la direzione, ed era un abile difensore della musica seriale, visto che possedeva quei poteri intellettuali per elevarsi dalla folla e difendere la sua posizione. Il linguaggio dei suoi articoli, pubblicati in una raccolta intitolata “Releves d’apprenti” (in Italia pubblicato come Pensare la Musica Oggi, nda), è caustico, aggressivo, e in linea con la classica tradizione francese del fare polemica. Una sua massima ricorrente era “Qualsiasi compositore che non abbia sentito l’assoluta necessità del sistema seriale nella musica è INUTILE”. Mi era quasi venuta l’orticaria a leggerlo, ed ero seriamente indeciso se prenderlo sul serio o no. Tuttavia, anche nella mia giovinezza e relativa innocenza, sono stato in grado di trovare il cul-de-sac fatale attorno cui l’ideologia di Boulez era costruita. Lui vedeva la musica solo da un punto di vista dialettico. Una nuova idea creativa era inutile se non rientrava nella sua visione storica della musica. È questa l’impostazione che ho trovato esclusiva ai limiti del ridicolo; è fondata su una sorta di prospettiva Darwiniana riguardo l’evoluzione stilistica. Se l’origine di una composizione non può essere rintracciata nel percorso solito che vede ai vertici Stravinsky e/o Schoenberg, quella composizione non merita alcuna attenzione. Inoltre, se tale composizione non ha contribuito, in nessun modo, al rinnovo o al progresso del linguaggio, sia dal punto di vista tecnico che da quello della complessità del discorso, non merita nemmeno una discussione.
Traduzione dell’autore dell’articolo
(John Adams, Hallelujah Junction: Composing an american Life, Faber & Faber, 2011, pg. 25)
Comprendere cos’è il tempo per noi, come lo viviamo e lo percepiamo, è comprendere come tempo ed emozioni, anzi musica, tempo ed emozioni, siano indissolubilmente legati tra loro, con un unico filo. Laddove invece la musica si allontana dall'essere specchio delle nostre interiorità, proponendo involontariamente - proprio perché rifiuta le premesse concettuali di esprimere alcunché - degli stati psichici irreali e lontanissimi dalla nostra esperienza interiore, corre il rischio di divenire incomprensibile. E questo non ha niente a che fare con il diverso grado di dissonanza e complessità, o con l’assenza di ritmo e melodia. Un tempo statico, una monocromia espressiva protratta troppo a lungo, sono le basi per evocare degli stati psichici in cui non possiamo riconoscerci, perché la nostra vita interiore è fatta in maniera completamente diversa, a meno che non sia affetta da gravi patologie mentali (come una profonda forma depressiva) o non subisca stati di pericolo estremo […]
(Gian-luca Baldi, Cronodianoia o del Realismo Interiore, Armelin musica - Padova, 2015, pg. 3)
John Adams è un compositore americano nato nel 1947, molto famoso per i suoi lavori orchestrali e alcune delle sue opere, tra cui spiccano Harmonielehre, Shaker Loops e Harmonium. Ma in netto contrasto con la prassi delle varie orchestre sparse nel mondo e delle considerazioni della critica, il suo lavoro che io reputo assolutamente il più importante dal punto di vista umano, emotivo e compositivo è On the Transmigration of Souls, un memoriale per nastro magnetico, coro e orchestra sull'attentato alle Torri Gemelle dell’11 Settembre 2001. Partendo da un evento particolare, che nel bene e nel male ha segnato un punto di svolta nella storia mondiale del XXI secolo, Adams ha composto, a mio parere, un lavoro che alla fine va ben oltre quell'evento, e va ad abbracciare il sentimento umano nella sua più totale purezza, elevandosi da opera d’arte rinchiusa nel tempo ad opera d’arte che trae linfa vitale dal tempo, riuscendo così a scorrervi sopra. Non importerà quindi in che anno quest’opera verrà eseguita, visto che saprà trasmettere comunque la stessa carica emotiva, anche per quelle generazioni che non avranno più fonti dirette per quell'evento. Perché sono così sicuro di questa cosa, visto che tale composizione ha appena diciassette anni e il ricordo di quell'attentato è ancora limpidissimo tanto da essere ancora centrale in molti dibattiti odierni?
Ciò che ho sentito in On the Transmigration of Souls, l’autenticità, la forza dirompente, la chiarezza e la semplicità di trasmissione delle emozioni ivi contenute, è stato molto simile ai miei innumerevoli ascolti della nona sinfonia di Beethoven e anche alla mia partecipazione attiva come orchestrale. Con il passare del tempo mi sono fatto questa idea, ossia che più un’opera viene “piegata” ai bisogni di un’epoca particolare, a fini propagandistici o semplicemente interpretativi, più posso considerare quell'opera come veramente riuscita. Lo sa solo il tempo, ad esempio, quanto la nona di Beethoven sia stata oggetto di “appropriazione” da parte di regimi e governi nella storia, soprattutto nel XX secolo, con risultati anche paradossali, dove un Beethoven eroico e tedesco che guida lo spirito nazista nel terzo Reich si trasforma in un Beethoven liberatore e pacificatore che riunisce prima le due germanie nel 1989 e poi i popoli europei nella costituzione dell’Unione Europea. La domanda qui sorge spontanea: come può un’opera rappresentare e guidare epoche storiche anche estremamente diverse tra loro? Può essere che la reale essenza della musica trascenda il momento contingente e abbia come sua più grande virtù il fatto di poter trasmettere sentimenti, altro elemento al di fuori del tempo, che definisce l’anima dell’uomo se non la sua intera identità (dato che come abbiamo visto la coscienza inizia come sentimento)?
Il Ritorno della Libertà nella Musica
Prima di provare a rispondere alle domande di cui sopra, vorrei partire con un esempio quotidiano, specialmente per quelli particolarmente interessati ai sogni. Una mattina vi svegliate e siete subito scossi da un sogno che siete fortunatamente riusciti a strappare dalla damnatio memoriae della vostra coscienza. È un sogno speciale, con una carica emotiva inverosimile, e con immagini al di fuori di qualsiasi realtà. È un sogno con un valore per voi, e fremete dalla voglia di raccontarlo alla vostra persona più cara. Mettiamo che vi ricordiate ogni singolo particolare, e riusciate a descriverli all'altra persona nella maniera più minuziosa possibile. Ciò che veramente accade però è che quel sogno all'improvviso perde la sua attrazione, il suo carattere affascinante. Accade soprattutto per il vostro interlocutore, ma è probabile che anche voi più continuate a raccontarlo, più vi accorgete che quello che state raccontando è un mucchio di immagini e storie sconnesse. Vi accorgete che l’elemento più importante, quella carica emotiva che rende quel sogno speciale per voi, non può essere raccontato. Si tratta del sentimento. Trattandosi di un fenomeno, come detto prima, privato e diretto verso l’interno, che coinvolge sia la mente che il corpo, non riusciamo ad esternalizzarlo consciamente, o verbalizzarlo. Ma non è tutto. Siamo veramente sicuri che il nostro interlocutore, avendo in mente le stesse immagini e le stesse storie del nostro sogno, possa sentire allo stesso medesimo modo quello che abbiamo sentito noi? Probabilmente la risposta è no. D’altro canto, sono abbastanza sicuro che a partire da sentimenti uguali (e sono infatti i sentimenti a dare inizio a tutto) due persone possano arrivare a immagini e storie anche opposte tra loro, semplicemente perché l’esperienza personale e la propria personalità rendono unica l’esperienza di un sentimento. Il più delle volte sono differenze minime, ma quelle differenze sono essenziali nel costruire la nostra identità e riconoscere quella degli altri.
Ecco, più vado avanti con la mia ricerca sul rapporto tra musica ed emozioni, musica e coscienza e musica e omeostasi, più avvicino il significato più intimo della musica ai sogni. La musica di fatto è un’esperienza estremamente personale, poiché i sentimenti che si provano per essa possono variare molto significativamente da individuo a individuo, e tali sentimenti innestano in noi ricordi e connessioni che solo noi, unici detentori della nostra coscienza, siamo veramente in grado di capire e sentire. Tuttavia, se consideriamo quelle persone ancora ai primi passi nella formazione della loro identità (bambini, adolescenti, giovani), la musica può essere talmente potente da plasmare la nostra coscienza e soprattutto i nostri sentimenti. Partecipa attivamente nella formazione del nostro immaginario, del proprio io, del proprio comportamento rispetto a ciò che ci circonda. Considero questa capacità della musica come quella che effettivamente poi unisce e lega le persone. È una capacità paradossale: riuscire a connettere individualità e a farle sentire unite proprio grazie alla loro esperienza più intima e personale, quella del sentimento. Raramente la musica ha bisogno di essere verbalizzata (o meglio, dialetticizzata), perché il sentimento è già di per sè un elemento alla base della costruzione della nostra coscienza. Ciò che può essere verbalizzato è il contesto di quell'opera, ma non l’opera in sé, se tale opera è intrisa di sentimento. Quello che a mio avviso serve veramente dopo aver sentito qualcosa è il silenzio e un ascolto interiore dei propri cambiamenti omeostatici. Non sto ovviamente negando l’utilità dell’analisi musicale-musicologica, o della verbalizzazione della musica in sè, che considero ancora estremamente importanti e che anzi possono in seconda istanza farci sentire ancora più vicini a un’opera d’arte. Laddove sentimento e intelletto, sentire e capire, si influenzano l’un l’altro, possiamo dire di assistere veramente a un’opera d’arte, ma dobbiamo ricordarci che è il sentimento a cominciare. Quindi, se non riusciamo dapprima a sentire le connessioni e la struttura in una composizione, manca a mio avviso l’essenza prima della musica, e di conseguenza il passo successivo, ossia il capire la musica, diventa un esercizio intellettuale anziché un’esperienza intelletto-sensitiva.
Quali potrebbero essere alcune delle conseguenze di queste mie ultime considerazioni?
Partiamo da un esempio personale. Nel 2019 ho composto un pezzo per vibrafono, Sogno Lucido Notturno. Nel segmento intermedio l’atmosfera prevalente è di dispersione spazio-temporale, una sorta di viaggio onirico nel vuoto. Tuttavia, ho deciso di mantenere una suddivisione ritmica chiara e tutto sommato semplice, perché sentivo che comunque il materiale contenuto al suo interno aveva una sua organizzazione strutturale. Tuttavia, nel giorno particolare in cui ho registrato quel specifico segmento, sentivo che se io avessi voluto essere “vivo” e di conseguenza rendere “viva” la musica, avrei dovuto suonarlo in maniera leggermente diversa. È quello che ho fatto. Ho disatteso una mia volontà espressa dal me compositore qualche mese prima col fine di sentirmi vivo e sentire viva la musica in quel momento particolare. Si, stiamo parlando della stessa persona. È più difficile oggi notare queste differenze, poiché ci sono pochi interpreti che compongono la loro musica e pochi compositori che interpretano le loro opere (un’eccezione degna di nota è la musica elettronica o le composizioni registrate con strumenti virtuali, che secondo me meritano un’ulteriore articolo). Un altro fattore però che a mio avviso ha determinato meno libertà e meno vitalità alla musica è il fatto che nel secolo scorso e in quello attuale un numero non trascurabile di compositori ha cercato di prendere il controllo di qualsiasi aspetto del fare musica. E se dico qualsiasi intendo tutto. Nella mia esperienza personale mi sono imbattuto in Vibra Elufa, un altro pezzo per vibrafono composto nel 2003 da Karlheinz Stockhausen. Mi è saltato subito all'occhio l’enorme cura dei particolari e l’incredibile precisione con cui Stockhausen ha redatto questa partitura. Cambi di tempo frequentissimi, a volte espressi anche con i decimali (bpm: 102,5, per esempio), il pedale deve essere premuto lì e non là, questa nota deve essere suonata pianissimo, subito dopo un’altra fortissimo, questa settimina all'interno di una terzina deve essere suonata correttamente a quella velocità, e così via. Mi sono sentito come intrappolato, in una gabbia costruita da un altro a suo piacimento, potendo muovermi solo attraverso un percorso preconfezionato. È probabile che sia stata anche la mia personalità ad avermi fatto dare questa impressione, ma alla luce di quanto scoperto finora, posso permettermi di dire di avere anche dei dubbi fondati. Un compositore, anche con la migliore delle intenzioni, quando tenta di mettere per iscritto l’interpretazione ideale, se non perfetta, del suo lavoro, corre a mio avviso un grande rischio.
Posso dire ad esempio che Stockhausen abbia sentito quello che stava scrivendo, ma nel tentativo di trascrivere ogni suo sentimento nella maniera più chiara e il più vicina possibile a quello che è il suo mondo interno, ha inevitabilmente cristallizzato la sua opera. Come posso io in qualità di interprete suonare la sua musica, se ogni mia libertà è virtualmente preclusa? In questo caso dovrei diventare un esecutore, non prendendo in considerazione i miei sentimenti e la mia coscienza. Posso capire i perché di determinate scelte, ma fintanto che non le sento non posso dire di averle capite pienamente. Dovrei forse diventare un computer? Poche domande, pochi problemi, ma anche poca vitalità e poca dignità. Io sono una persona, la musica è fatta da persone, l’interpretazione è personale e se c’è una cosa che rende la musica speciale è che permette di attivare in maniera straordinaria i sentimenti e le emozioni di ogni singolo individuo. L’unico difetto è che non è una scienza esatta, in primo luogo perché la musica è un vasto insieme di scienze, in secondo luogo perché è direttamente collegata con le regioni più profonde della nostra mente, dove tutto è collegato e tutto si collega in divenire, esattamente come i sogni. Cristallizzare un’opera elimina di fatto la dinamicità del nostro essere, cioè nasconde sotto il tappeto il fatto che ognuno di noi cambia col tempo. Il rischio che si corre quindi è che la propria opera sia indissolubilmente legata e imprigionata nel tempo, anziché scorrere su di esso. Avrei un’idea di com'era Stockhausen nel 2003, ma senza sentimento, trasmettendo solo ricordi morti.
Una mia proposta sarebbe quindi di considerare la partitura come un punto di partenza, anziché come un prodotto finito. Una forma dai lineamenti opachi che solo un interprete il quale sente realmente ciò che sta suonando può mettere in chiaro e trasmettere agli altri. Lo posso dire sia da interprete che da compositore. Come compositore, non appena finisco un pezzo sento che tale pezzo sia ormai distaccato dal mio essere che debba prendere il suo corso, come un figlio adulto che saluta i suoi genitori e intraprende la sua strada, fatta di incontri con persone più o meno buone, e con influenze più o meno buone. Come interprete, sento il bisogno di unirmi con il pezzo che voglio (o devo) suonare e presentarlo come una parte di me, oltre che come una parte del compositore. È praticamente impossibile secondo me affermare di aver dato la giusta interpretazione a una composizione. Il giusto non esiste nella musica. Esistono le persone che attraverso i loro sentimenti e il loro intelletto affermano che per loro quell'interpretazione è giusta. Il concetto di giusto nella musica è molto più una questione sociale, empirica, che normativa e scientifica.
Quello che voglio sentire dagli altri con le mie composizioni è la vitalità, l’energia, la diversità e la personalità dell’interprete. Solo lì allora posso considerare quella persona dotata di una sua univoca identità e da lì cominciare una discussione. La musica ha bisogno di libertà, poiché senza di essa nascerebbe già morta.
Vorrei che si finisse di considerare l’aspetto grafico del fare musica come punto centrale per la presentazione del proprio brano alla società. La musica si sente, non si guarda. È un impegno che sia gli addetti ai lavori che il pubblico dovrebbero prendere ogni volta che assistono a un concerto. È forse l’unica regola che dovrebbe esistere nella musica, anzi, sento che quella è l’unica regola da seguire.
Vorrei che l’enorme forza psicologica che il “deve essere fatto così” impone sulle menti dei giovani studenti, compositori e non, svanisse e non tediasse più le innumerevoli personalità che il mondo umano può offrire.
Vorrei che si pensasse di più all'originalità interiore dell’opera che al progresso che può portare. Il progresso è parte integrante della musica ma non è la sua essenza. L’aspettativa del progresso nell'arte crea competizione tossica, identità distrutte e una repressione di idee genuine, ma che o per un motivo o per l’altro non rientrano nell'ideale “rivoluzionario”.
Vorrei infine che si dia la giusta dignità e importanza alle emozioni, ai sentimenti, al nostro mondo interiore. In una società dove la velocità, la competizione sfrenata, gli interessi esterni, il lavoro ci fanno dimenticare gli stati del nostro organismo, i nostri sentimenti, è doveroso cercare di portare avanti questa causa.
Spero di avervi interessato con questo lungo articolo e spero di aver acceso in voi l’interesse per questo tema. Per questo vi consiglio caldamente di leggervi il libro di A. Damasio, i libri che ho elencato negli altri due articoli e i link che ho sparso in questi scritti. Se più persone leggono queste fonti, ci sarà molta più probabilità di aprire un dibattito serio anche al di fuori degli ambienti scientifici. Io non ho scritto verità, ma ipotesi plausibili e non potrei che essere contento di ricevere critiche che migliorino, o anche stravolgano, la mia concezione della musica.
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