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ANDREJ MAKSIMOVIC - HE TOOK A FEW CUPS OF LOVE

IT/EN

Translation by the author



Muhammad Ali guarda George Foreman cadere, 30 Ottobre 1974. – foto di The Associated Press


«He is a convicted felon in the United States: he has broken its laws; he has been found guilty, because of the great justice and system of jurisprudence we have; he is out on bail while Superior Courts ponder his fate; he will inevitably go to prison, as well he should. He is not funny: he’s a disgrace to his country, his race, and what he laughingly describes as his profession. […] I find nothing amusing or interesting or tolerable about this man!». Queste parole sono solo un granello nel deserto degli innumeri vituperii scagliati contro un negro venticinquenne che, fedele alle sue idee come se tradendole il suo sangue potesse smettere di essere rosso, negli anni sessanta imbiancati dalle lapidi di Herbert Lee, Medgar Evers, James Chaney e Martin Luther King, chiamato alle armi nonostante fosse stato ritenuto non idoneo all’arruolamento a causa di due test attitudinali falliti, pur di non prendere parte a nessuna guerra, accettò di essere condannato a ben cinque anni di prigione; di pagare una multa di diecimila dollari (oggi equivalenti a 93.236$); e di essere derubato: del suo passaporto, dei titoli di campione del mondo WBC e WBA dei pesi massimi, e della licenza da pugile in tutti gli Stati degli USA. Il «simplistic fool» in questione, quantunque chi lo condannò rifiutasse di chiamarlo così, era Muhammad Ali – the greatest of all times che cinquant’anni or sono, il 30 ottobre del 1974, riconquistando niente di meno che a Kinshasa il titolo mondiale che non aveva mai veramente perso, vinse definitivamente, se non l’ammirazione, per lo meno l’ascolto dell’intero pianeta. Cionnonpertanto, mi domando: scorsi come acqua cinque decenni, in quanti ricordano davvero di lui ciò che lui stesso, nelle interviste precedenti a quell’incontro che lo portò sull’Olimpo, dichiarò di desiderare che fosse ricordato? 


Ali ad una protesta contro la guerra in Vietnam a Los Angeles, 1967

Lo sanno anche i muri, nevvero? È dal neolitico, che l’uomo è in guerra con l’universo intero; e da che esiste l’alfabeto, da che esiste il sapere oggettivo, il mondo è così scialbo e così ostile, che solo un possesso e un controllo perfetti e totali possono donare all’uomo la pace: quella sazietà data dall’appropriazione e quella sicurezza che viene al sovrano dall’avere ucciso ogni contendente al trono. Tuttavia, siccome una tale pace, essendo un possesso, è provvisoria e sempre vacillante, l’uomo, in questo intrigo di vita che si usa dire mondo, è sempre in stato d’allerta e d’angoscia, e dunque sempre pronto alla guerra. L’annientamento e il controllo sono il solo e unico metodo umano di soluzione del conflitto e di liberazione dalle catene, dunque la guerra è perenne, sempre necessaria, giustificata e attuale; ma, soprattutto, sempre innovata ed espansa in modo capillare. L’organizzazione perpetua della violenza in tutte le sue forme è il metodo fondamentale di convivenza umana, al di là di ogni cultura; e da che l’uomo, con le armi atomiche, ha raggiunta la capacità di polverizzare il pianeta, egli non ha trasformato sé stesso ed i suoi valori, non ha quindi imparata l’arte della pace; ma s’è solo ingegnato nell’affinare i suoi metodi, militari e non, d’organizzazione della violenza nei confronti dell’intero mondo. La sola ed unica tragedia di questi nostri lugubri giorni, giacché al mondo non si può ch’esser vincolati, non è la schiavitù in sé, bensì i padroni dei quali s’è schiavi; e tali padroni non sono i singoli potenti tiranni, bensì le credenze portanti della civiltà umana – quei racconti entro le condizioni dei quali il mondo d’ognuno di noi si manifesta. Non viviamo oggi la rovina di una ideologia che abbia portato il mondo ad essere malconcio come ci pare che oggi sia, ma il tramonto di tutti gli assiomi della soggettività umana come la conosciamo, di tutti i suoi presupposti. Dovunque vi giriate, sappiate che questa umanità ha terminato il suo ciclo, e che millenni di storia si adunano sul rogo dei nostri giorni: noi non siamo che dei saltimbanchi sperduti, senza bagagli, nella bolgia della stazione finale di un lungo percorso perverso e infecondo; incapaci di udire, nello stridore delle rotaie, la musica di nuovi binarii. Ebbene, sordi, vi dico: non siate anche ciechi; non vomitate la vostra bile sui capi stazione e sull'ingiustizia della loro gestione, perché essi non sono che i padroni dell’ultimo girone d’un inferno millenario, essi non sono che dannati come voi, schiavi delle medesime sataniche credenze e prigionieri della stessa putrefazione senza scampo. Solo estirpando il cancro alla radice, le convulsioni cesseranno: il vostro sguardo guardi dunque sé stesso. Quanto diciamo umano è menzogna, crimine, violenza, pigrizia, stoltezza, sciatteria, grigiore, nullità, marciume – quanto diciamo umano è morte, e perciostesso alla morte presto giungerà. Non sono questi tempi tenebrosi? E non brulica forse nel vento il fetore della nostra inevitabile putrefazione? Il tramonto ha già firmato il suo decreto: verrà la notte a donar alla terra il beneficio della sua perla, così che la specie possa ricordare luce e chiarezza. Ascoltate, e sappiate discernere la cianosi dalla porpora del vino; sappiate distinguere il pallore dal candore – sia il vostro gusto finissimo, e il vostro ricordo più arguto; e della notte, saprete amare e fecondare la tenebra, e celebrare e custodire le stelle. In verità vi dico: non è oscuro il mondo ma accecato l’uomo; e non è fetida la brezza di questo autunno, ma otturate le narici dello Spirito – è l’uomo, qui, morto ed estinto in sé stesso: sarà indi compito dell’uomo risorgere, sarà compito dell’uomo mutare ogni abito, ogni pratica, ogni concetto, ogni forma ed ogni sentimento che prenda il nome di umano. 


Molto a lungo, l’uomo è stato nomade, fino a ché il suo genio gli ha mostrato ch’egli non era obbligato ad inseguire le prede: ch’egli poteva possederle e crearle. Da tale illuminazione, sono nate l’agricoltura e l’allevamento; e con esse, è sorto il villaggio. Allora, ogni famiglia produceva quanto le era necessario a sopravvivere; ma con l’avanzare delle tecnologie, l’uomo è divenuto sempre più produttivo e la ricchezza dei raccolti, il numero di pelli e la quantità di carne di certe famiglie è aumentata a dismisura, dando vita agli scambi, ma soprattutto, essendo l’uomo da gran tempo abituato a fare ciò che nessun animale fa, ossia conservare i proprii strumenti, al conservare gli eccessi. Pertanto, una famiglia che produceva verbigrazia tantissimo grano, smetteva di allevare, di tessere e di costruire, e scambiava il grano in cambio di pelli, di lane, del lavoro di un falegname eccetera: ognuno è diventato più produttivo nel suo campo. La famiglia che abitava vicino al fiume, gettando un seme, ne raccoglieva venti; mentre quella lontana, gettandone uno, non ne raccoglieva più di cinque: divisa la popolazione in base ai ruoli, poiché ognuno era più o meno avvantaggiato rispetto ad un altro, certi hanno iniziato ad esser superiori, perché chi possedeva di più poteva donare di più; ma in specie, chi aveva, non del grano in eccesso, ma abbastanza grano da mantenere un intero villaggio, poteva donare il grano a varie persone, ottenendo così le prestazioni di tutti, ossia ottenendo dei servi, delle persone indebitate. Dovendo i ricchi, per non essere divorati vivi, tracciare il materiale donato, sono nate le prime forme di scrittura: se al contadino x venivano dati y sacchi di sementi più la terra z, si sapeva che era così perché era scritto, come era scritto anche che costui doveva w sacchi di grano per ricompensare il dono sia dei sementi che della terra. Se prima a regolare il tempo erano le azioni quotidiane, con la scrittura hanno preso a farlo i debiti e i doveri: con la scrittura, gli uomini sono diventati segni su una tavola e la loro vita un insulso calendario asservito al dovere. Con la scrittura, essendo tutti i debiti oggettivi, la vita della persona è stata degradata al dovere del segno sulla tavola, dovere il cui scopo era quello di saldare i debiti. Dal dono, è nata indi la totale indifferenza dell’uomo verso l’uomo: gli uomini sono diventati mezzi, e così tutto il mondo – come l’uomo, anche il grano è divenuto un segno su una tavola. Col passare del tempo, la scrittura si è evoluta: l’uomo ha preso a trascrivere i fonemi, e di conseguenza a scrivere i discorsi. Potendo leggere e rileggere le sue parole, l’uomo ne è diventato spettatore critico, tanto che l’abitudine lo ha reso spettatore del mondo: ha iniziato a duplicare il mondo, ad imporre sulla vita le leggi secondo scienza improvvisate dal discorso. L’economia del dono aveva senso in una condizione di povertà, di sopravvivenza, dove il più ricco era nient’altro che un poveraccio di oggi; eppure, progredita la società, poiché l’uomo, memore delle sofferenze dell’essere selvaggi, ha fatto della fame una legge del cosmo, la schiavitù è divenuta la forma prima di civilizzazione. Ancora oggi, infatti, più l’uomo è vizioso, più egli s’industria per accontentare la sua fame, perciò più i vizii e la dipendenza diventan dominanti nel carattere umano e la civiltà intera si organizza intorno ad essi; dunque più la civiltà diventa ricca, più gli uomini che la compongono assumono le sembianze di un tossico disposto a rapinare persino sua madre per una misera dose. Gli uomini, per soddisfare la loro fame; qualunque tipo di fame abbiano, chiunque essi siano e qualunque sia il loro potere e la loro ricchezza; poiché ritengono la soddisfazione della suddetta fame necessaria alla loro sopravvivenza sia fisica che psicologica, si adattano a ciò che è scritto, alle regole oggettive del gioco, e sono dunque giustificati, inquantoché non son malvagi, ma semplicemente realisti e dediti alla legittima conservazione di sé stessi nel solo modo che il mondo oggettivo con le sue leggi oggettivi entro cui sono costretti gli consente. La nostra società cresce, non a pane e acqua fresca, ma ad indifferenza e sfruttamento al fine di soddisfare qualsivoglia vizio ormai divenuto bene comune; e se è sì vero che chi ha il potere può imporre ogni suo vizio al resto del mondo, è tuttavia altrettanto vero che persino i grandi potenti sono schiavi di qualcosa più grande e potente di loro: del morbo dell’umanità. Non è forse anche la volontà dei governanti del tutto sottomessa a serragli di doveri, cioè di necessità comuni, soverchianti la loro individualità: non sono anch’essi indebitati, non sono anch’essi segni su una tavola? Oggi, un governante non può in nessun modo opporsi all’accumulo di ricchezza, nemmeno per il bene della nazione che governa, perché quella ricchezza è per il bene d’una popolazione più vasta della sua nazione, addirittura per il bene degli uomini che ancora devono nascere: se a portare tanta ricchezza fosse una guerra, il governante, sapendo di tutto il denaro che porterebbe e del bene che tale denaro potrebbe fare nel futuro, non sacrificherebbe, coi suoi valori, la sua immagine pubblica e la sua dignità, il bene dei cittadini della sua nazione? Suvvia, se il più grande mercato al mondo è quello delle armi, un mercato che cioè produce, seppure per la massima parte dei casi involontariamente, un incremento di ricchezza e di progresso colossali, fare qualche guerra, con tutti i morti e i feriti che porterebbe nel breve tempo, le cure dei quali richiederebbero fra l’altro orde di farmaci il pagamento dei quali aiuterebbe molto le ricerche sulle malattie finanziate dalle grandi case farmaceutiche, sarebbe certamente una scelta giusta per la sopravvivenza nel lungo termine della nostra società e per il successo futuro del progresso; dunque, sottoposto al bene comune e tenuto in prigione dalle banche che emettono la moneta e che prestano soldi agli Stati solo se è nel loro interesse, il grande e potente governante come potrebbe opporsi? Ed allo stesso modo, il direttore della banca, dovendo egli fare il bene appunto della banca, perché mai dovrebbe opporsi anche lui a tale guerra e alla corruzione dei Capi di Stato? Ancora allo stesso modo, se la raccolta dati porta al controllo di tutti gli individui e di conseguenza ad una società più facile da guidare, perché mai il direttore di un’azienda informatica, dovendo far poi il bene della sua azienda e pagato per raccogliere dati, dovrebbe rifiutare di fare il bene suo, dei dipendenti e del genere umano intero? Ma soprattutto, se il fior fiore degli scienziati odierni dice che l’uomo, se fossero disponibili tutti i dati necessarii, potrebbe essere controllato come ogni cosa del mondo, perché mai si dovrebbe rinunciare a trattare tutti come pecore e ad indirizzare l’uomo verso il bene comune deciso a priori? Non vi è un singolo uomo che non sia colpevole. Una rivoluzione solo politica non serve a nulla: il novecento lo ha mostrato. Tutti i mostri che ognuno di noi vede fuori di sé non sono che incarnazioni di ciò che ognuno di noi in parte è: l’uomo è da cambiare, radicalmente… ma come? 


Nel bene e nel male; e nel successo e nel finimondo; l’uomo, nella sua immaginazione, non vede oramai niente di più che il suo modo di vivere: egli non è cioè capace di pensare altri modi di esistere; ma solo di immaginare il successo, o più spesso il disastro, del modo di vivere che già vige da millenni. La rovina non è più una possibilità, né una disgrazia del passato: è lo stato naturale delle cose, il cosmo che si perpetua secondo le sue stesse leggi; dunque il finimondo è tanto concreto quanto un’umanità diversa è utopia. L’incapacità di vedere altri modi di vivere porta gli uomini ad essere più ansiosi, cioè a lottare davvero per la sopravvivenza, intensificando ancora di più la stessa fame che alla tragedia odierna ha portato. Non viviamo la notte del mondo, siamo noi a stare a occhi chiusi, divorati dalla nostra stessa cecità primamente sentimentale: la nostra piaga non è infatti l’ignoranza, visto che tutti conosciamo quanto del mondo ci uccide, ma la fiacchezza del sentimento – ci sono le stelle, ma non brillano, perché poco conta brillare, se il buio che le circonda le sovrasta e le cancella. La civiltà non è una ideologia, non ha bisogno di propaganda per seguitare nella sua mortifera esistenza: non ha bisogno che qualcuno creda in lei; essa vive apparendo superiore agli uomini che la formano, al punto che questi, essendo la loro vita privata sottomessa ai doveri pubblici, non possano far altro che guardare il mondo bruciare come se così fosse il gioco e così le regole e non si dovesse far altro che subirle – siccome se la civiltà fosse un monopoli intessuto in terra dall’Iperuranio entro il quale gli uomini sarebbero costretti. Ad esempio, se l’attuale sistema economico costringe in povertà metà del mondo, è bene saperlo, così, per cultura generale; ma ancor meglio è indignarsi a tal punto da consumare i prodotti di quello stesso sistema economico l’incasso dei quali sarà in parte donato a coloro i quali si mantiene in povertà per fabbricare quegli stessi prodotti. In egual modo, bisogna tutti ricordare che il progresso sta friggendo il globo e che l’uomo, con le sue industrie, è il cancro del pianeta; ma ancor meglio è indignarsi a tal punto da acquistare i prodotti ecologici delle stesse ingiuriate industrie. La società va avanti soddisfacendo i vizii; tuttavia, siccome l’uomo ha avuta la brillante idea d’inventare la morale, è bene, per bon ton, elencare ossessivamente tutti i vizii ed i crimini compiuti, simulando una confessione il testimone della quale è l’indifferenza più assoluta: è bene insomma ripetersi che il mondo è un disastro, giusto per convincersi che sia giusto rinunciare e fare dalla propria esistenza un lento suicidio senza senso. Vi sono però anche coloro che, non accettando cotanta tremenda situazione, cadono nella frustrazione e nel risentimento fino a ricorrere alla violenza come solo metodo d’innovazione – confermando, illusi di portare venti nuovi, il modo di vivere che ha portato al disastro che loro stessi soffrono con tanta frustrazione e che anelano superare con tanta foga. L’opinione comune, dunque, non è solo che, portando alternative, si fallisce sempre; ma che se anche si riesce nel creare un nuovo mondo, questo sarà comunque un manicomio od un porcile alle porte del macello. Nei casi peggiori, la violenza diventa invece il fine: non potendo creare nulla di nuovo, non resta che la distruzione di ciò che si odia; un comportamento che rende il mondo ancora più inospitale e sterile, nutrendo il circolo vizioso per il quale, se a regnare è l’incapacità di generare vita, tanto vale uccidere quella vita che già c’è, in quanto essa arranca in vano nella disperazione. Non resta pertanto altro che una paralisi angosciosa, con le mani e le gambe che sprofondano nelle sabbie mobili e col cervello che seguita a discorrere dell’orrore di tali sabbie mobili ricordandosi sempre che mani e gambe non lo tireranno fuori. Ebbene, tale annegamento non fa che arrecare perennemente al cuore ferite laceranti, a loro volta interpretate dal cervello come parte dell’orrore che annega la persona, alimentando in tal modo il ciclo all’infinito, fin a portare ogni individuo a una sconvolgente implosione psicofisica, ch’è possibile evitare solo ubriacandosi in fase di annegamento, ossia contribuendo ad aumentar la mole di quella civiltà che prospera sulla soddisfazione dei vizii e delle dipendenze – se il mondo va a pezzi, non resta che badare al proprio buco ed ubriacarsi in esso. Pertanto, ovunque si vada e a chiunque si chieda, il responsabile è sempre un altro. La civiltà è un labirinto dove il colpevole è sempre il prossimo della fila, dunque si è soliti trovare un capro espiatorio per sfogare sotto forma di violenza la furia che non si è espressa sotto forma di innovazione. Rimandando la colpa all’infinito, si arriva ad una assoluzione generale della civiltà alla quale corrisponde un odio smisurato: così come un sospetto criminale, assolto dalla legge per mancanza di prove, rimane dannato a esser visto di malocchio dalle gente per tutta la vita; allo stesso modo, la civiltà, assolta ufficialmente, continua a esser odiata da tutti i suoi membri, i quali, ogni tanto, fabbricano qualche bella prova cornuta per distruggere tutto con il pretesto di fare giustizia e salvare il mondo. Ciò avviene perché l’uomo campa sterminando e specializzandosi; dunque bisogna individuare dei pericoli oggettivi ed ucciderli, non osservare i moti. Quando ognuno rimanda la colpa a qualcuno o qualcos’altro, la rimanda secondo le sue specifiche competenze, operando in seguito degli sterminii parziali totalmente inutili che non ottengono altro risultato che quello di portare avanti la violenza umana: tutti rimandano la colpa e tutti sterminano il colpevole ch’è dato loro di vedere coi paraocchi della loro competenza; e nulla giammai cambia perché nessuno dei giustizieri vede che la morte è perpetua e non figlia di un capro oggettivo. Ne consegue che la società è una zuffa atroce e incontrollabile, un tutti contro tutti ove ogni individuo è mobilitato contro qualcuno e/o qualcos’altro; e dove indi il male, nonostante tutte le cause oggettive concepibili siano combattute, non cessa mai, ma anzi, come l’Idra, più lo si combatte attaccandolo alle sue teste invece che al cuore, più questo cresce in modo vertiginoso aumentando le teste stesse – e come se non bastasse, più la zuffa si espande, ossia più l’idra moltiplica le teste, più la colpa viene rimandata, e più aumenta indi, dietro al numero di colpevoli, il numero di sterminii: e ancora aumentano le teste. Più la società decade, più le persone invocano un’azione decisiva che risolva tutto, un’azione che attacchi la testa di turno scambiata per la totalità della belva: tutti pensano all’azione, a cosa sterminare per purificare la civiltà; ma nessuno pensa che, se nessuno è colpevole perché tutti in qualche modo da Adamo ad oggi lo sono, l’unica cosa che resta da fare sia mutare in sé, senza violenza, ciò che di marcio ci accomuna in quanto umani, invece che sterminare fuori di noi quanto incarni l’esagerazione di ciò ch’è anche in noi in quanto umani. 




Ali mentre firma autografi ad una manifestazione contro la guerra a Los Angeles,1967. Foto di UPI/Bettmann Archive/Getty Images


Or bene, non sono qui a ricordare un pugile, un uomo politicamente rilevante per la comunità nera degli Stati Uniti, un uomo che come molti non aveva alcuna intenzione di morire in Vietnam per una nazione che violava tutti i suoi diritti: sono qui a ricordare un uomo che possedeva tutto e che, pur di non tradire ciò che era e/o credeva di essere, pur di restare umano, l’avrebbe buttato via con la stessa velocità con la quale mandò a terra Sonny Liston. Sono qui a ricordare un uomo che sulla tavola aveva il più glorioso dei segni per il solo fatto di non aver mai smesso di nutrire dietro quel segno una persona disposta a sacrificare tutto, non per ciò che quel segno diceva di lui, ma per ciò che di umano era in quel segno da lasciare ai posteri: un uomo che il suo segno sulla tavola lo ha guadagnato essendo pronto a cancellarlo per l’umanità che vi era dietro. Dove la vita è ridotta alla sopravvivenza, alla dipendenza, dove la vita è ridotta a ciò che si possiede e non a ciò che si è, il sacrificio è una follia e un suicidio: un martirio degradato ad insopportabile stoltezza. Dove la vita è in ciò che si possiede, ciò che si è non è definito dal mondo, ma bensì dalla propria violenza e dalla propria fame: e l’indifferenza nei confronti del mondo regna. Non sono dunque qui a ricordare un campione, un self made man che possedeva tutto: sono qui a ricordare un uomo che è stato indifferente a ciò che aveva, ma mai a quanto di umano era in lui – un uomo che non ha mai reagito a coloro che lo attaccavano, che non ha mai portato rancore, un uomo che di coloro che lo condannarono disse «They did what they thought was right»: un uomo che ha lottato, non annientando un nemico, ma facendo vivere ciò che di umano era in lui, senza essere un solo istante cieco all’abisso in cui il mondo ancora oggi sprofonda. Il primo passo per cambiare sé stessi è smettere di essere indifferenti a ciò che si è: il primo passo è non credere che il mondo sia così, che l’universo abbia una qualche legge che imporrebbe una tale miseria – il primo passo è non temere di essere umani: non temere di rinunciare a quel segno, non temere di non pagare il proprio debito come quel ragazzo che non si arruolò per la sua nazione, e continuare ad essere umani nonostante tutto, senza rancore e senza disperazione. Non è colpa di nessuno perché è colpa di tutti, dunque sarà forse un giorno merito di tutti. Cultura non è avere delle norme di comportamento, non è tramandare, né tantomeno avere un linguaggio complesso, come se ogni animale non avesse un sistema tanto miracoloso e unico quanto la nostra sintassi: nessun animale crea, cultura è creare. Si era umani anche da selvaggi, così come oggi si è spesso scimmie pur essendo razionali, istruiti, civili, ammodo e garbati. Gli umani sono umani, non nel momento in cui comprendono ciò che si riferiscono; sia che colleghino la parola mela alla mela sia che colleghino un accordo di Re minore alla tristezza; ma nel momento in cui creano assieme. Ebbene, nonostante oggi molte scimmie si rifiutino di chiamare i pochi umani con il loro nome, voi non disperate: perché la libertà e la pace sono un cammino non un possesso; e mentreché costoro perderanno tempo ad ergervi a simplistic fools; giacché le cose sono parole, segni di ciò che noi siamo; rigenerando voi stessi il mondo vi parlerà con più gioia – e avendo fatto di voi stessi un cammino e non più una distruzione, vedrete una via. Create, non abbiate paura: quando un seme è fecondo, sia pure sperduto nel fango, germoglia – e se anche molti singoli dimenticheranno, ciò che il mondo sarà perché voi siete stati non vi abbandonerà nell’oblio. 




estratto dall’intervista The Frost Interview with Muhammad Ali, 1974




"Ha riempita qualche tazza d’amore –

V’ha versato un cucchiaio di pazienza

Ed un cucchiaino da té di buon cuore;

E ha riempita una pinta di dolcezza…


Ha radunato un quarto di risate,

Ed un pizzico di preoccupazione.

Ha unite gioia e buona intenzione,

E vi ha aggiunta fede a palate…


Ha poi mescolato il tutto con cura,

E nell'arco di una vita l'ha versato:

Servendolo ad ogni degna persona,

Che lungo il tragitto ha incontrato."

Muhammad Ali




***

Andrej Maksimovič è stato partorito il 17 marzo 2004 e risulta ufficialmente inesistente: or bene, non potendo indicare alcuna pubblicazione avvenuta, ci limitiamo ad indicare quelle desiderate: un poema e un saggio di dimensioni eccessive per l’attenzione di molti suoi contemporanei, proprio come i suoi articoli. Qualche volta traduce testi altrui, ma solo per Cultura In Atto: gli altri blog e le altre riviste online lo ignorano.




 

HE TOOK A FEW CUPS OF LOVE 



Muhammad Ali watches as George Foreman goes down, on 30 October 1974. Photograph: The Associated Press


«He is a convicted felon in the United States: he has broken its laws; he has been found guilty, because of the great justice and system of jurisprudence we have; he is out on bail while Superior Courts ponder his fate; he will inevitably go to prison, as well he should. He is not funny: he’s a disgrace to his country, his race, and what he laughingly describes as his profession. […] I find nothing amusing or interesting or tolerable about this man!». These words are just a grain in the desert of the countless wrathful acts of vituperation hurled at a twenty-five years old negro who, faithful to his ideas as if by betraying them his blood could stop being red, in the 60s whitened by the tombstones of Herbert Lee, Medgar Evers, James Chaney and Martin Luther King, when called to arms despite having been deemed unfit to enlist because of two failed aptitude tests, in order not to take part in any war, accepted a five years prison sentence, a fine of ten thousand dollars (today equivalent to 93.236); and to be robbed: of his passport, of his WBC and WBA heavyweight world champion titles, and of his boxing licence in all states of the USA. The «simplistic fool» at issue, although those who condemned him refused to call him that, was Muhammad Ali – the greatest of all times who fifty years ago, on october 30th 1974, by regaining no less than in Kinshasa the world title he had never really lost, permanently won, if not the admiration, at least the attention of the entire planet. I nonetheless ask myself: five decades down the line, how many people really remember what he himself, in the interviews prior to that match which took him to the Olympus, declared he wished to be remembered for? 



Ali at a Vietnam war protest in Los Angeles , 1967

Even the walls know it, don't they? Since Neolithic times, man has been at war with the entire universe; and since there has been the alphabet, since there has been objective knowledge, the world has been so shallow and so hostile, that only perfect and total possession and control can give man peace: that satiety given by appropriation and that security that comes to the sovereign from having killed every contender to the throne. However, since such a peace, being a possession, is provisory and always wavering, man, in this intrigue of life named world, is always on the alert and anxious, and therefore always ready for war. Annihilation and control are the one and only human method of conflict resolution and liberation from shackles, therefore war is perennial, always necessary, justified and timely; but, above all, always innovated and expanded in a capillary manner. The perpetual organisation of violence in all its forms is the fundamental method of human coexistence, beyond any culture; and since man, with atomic weapons, has attained the capacity to pulverise the planet, he has not transformed himself and his values, he has not therefore learnt the art of peace; he has only endeavoured to refine his methods, military or otherwise, of organising violence against the entire world. The one and only tragedy of these lugubrious days of ours, since one cannot but be bound in this world, is not slavery itself, but the rulers to whom one is enslaved; and these rulers are not individual powerful tyrants, but the underpinning beliefs of human civilisation – those narratives within which the world of each of us manifests itself. We are not experiencing today the downfall of an ideology that has led the world to be as battered as it seems to us to be today, but the demise of all the axioms of human subjectivity as we know it, of all its preconditions. Wherever you turn, know that this humanity has completed its cycle, and that millennia of history are gathering at the stake of our days: we are but acrobats, lost without baggage in the bedlam of the final station of a long, perverse and infecund journey; unable to hear, in the screeching of the rails, the music of new paths. Well, deaf ones, I say to you: do not also blind yourselves; do not vomit your bile on the station chiefs and on the injustice of their management, for they are but the masters of the last circle of a thousand-year hell, they are but damned like yourselves, slaves of the same satanic beliefs and prisoners of the same hopeless putrefaction. Only by eradicating the cancer at its root, will the convulsions cease: let therefore your gaze gaze upon itself. What we say human is lies, crime, violence, mawkishness, stolidity, shallowness, greyness, nullity, rottenness – what we say human is death, and therefore in death it will soon culminate. Aren't these dark times? And does not the fetour of our inevitable putrefaction swarm in the wind? The sunset has already signed its decree: night will come to give the earth the benefit of its pearl, so that the our kind may remember light and clarity. Listen, and know how to discern cyanosis from the purple of wine; know how to distinguish pallor from candour – let it be your finest taste, and your wittiest recollection; and of the night, you will know how to love and fecundate the darkness, and celebrate and enshrine the stars. Verily, I say unto you: not dark is the world, but blinded is man; and not fetid is the breeze of this autumn, but shut up the nostrils of the Spirit – it is man, here, dead and extinct in himself: then shall it be man's task to rise again, it shall be man's task to change every habit, every practice, every concept, every form and every feeling that bears the name of human. 


For a long time, man was nomadic, until his genius showed him that he did not have to chase prey: that he could possess and create it. Out of this enlightenment, agriculture and animal husbandry were born; and with them, the village arose. At that time, each family produced what it needed to survive; but as technology advanced, man became more and more productive, and the wealth of crops, the number of hides and the amount of meat of certain families increased disproportionately, giving rise to trade, but above all, having man long been accustomed to doing what no animal does, that is preserving his tools, to conserving the excesses. Therefore, a family that was producing so much grain would stop farming, weaving, and building, and would exchange the grain for skins, wools, the work of a carpenter etcetera: everyone became more productive in his own field. The family that lived near the river, casting one seed, reaped twenty; while the family far away, casting one seed, reaped no more than five: divided the population according to roles, as each one was more or less advantaged than another, some began to be superior, because he who possessed more could donate more; but in particular, he who had, not surplus grain, but enough grain to maintain an entire village, could donate the grain to various people, thus obtaining the benefits of all, that is obtaining servants, people in debt. Since the rich, in order not to be devoured alive, had to trace the donated material, the first forms of writing arose: if farmer x was given y sacks of seed plus land z, it was known that this was so because it was written, as it was also written that he owed w sacks of grain to reward the gift of both seed and land. If before it was daily actions that regulated time, with writing, debts and duties took over: with writing, men became signs on a board and their lives a meaningless calendar subservient to duty. With writing, all debts being objective, the life of the person was degraded to the duty of the sign on the board, a duty whose purpose was to repay debts. From the gift, thus came man's total indifference to man: men became means, and so the whole world – like man, even wheat became a sign on a board. As time passed, writing evolved: man took to transcribing phonemes, and consequently to writing speech. Being able to read and reread his words, man became a critical spectator of them, so much so that habit made him a spectator of the world: he began to duplicate the world, to impose laws on life according to the scientific improvisations of speech. The gift economy made sense in a condition of poverty, of survival, where the richest was nothing more than a poor man of today; yet as society progressed, as man, mindful of the sufferings of wildlife, made hunger a law of the cosmos, slavery became the primary form of civilisation. Indeed, even today, the more vicious man is, the more he labours to satisfy his hunger, therefore the more vices and addictions become dominant in the human character and the whole civilisation is organised around them; thus the richer the civilisation becomes, the more the men who make it up take on the appearance of a junkie willing to rob his own mother for a paltry dose. Men, in order to satisfy their hunger; whatever kind of hunger they have, whoever they are and whatever their power and wealth; because they consider the satisfaction of the said hunger necessary for their physical and psychological survival, adapt themselves to what is written, to the objective rules of the game, and are therefore justified, since they are not evil, but simply realistic and dedicated to the legitimate preservation of themselves in the only way that the objective world with its objective laws within which they are constrained allows them. Our society grows, not on bread and fresh water, but on indifference and exploitation in order to satisfy any vice that has now become a common good; and while it is true that those in power can impose any of their vices on the rest of the world, it is equally true that even the great rulers are slaves to something greater and more powerful than themselves: to the malady of humanity. Is not the will of the rulers also wholly subservient to clutches of duties, that is of common necessities which overwhelm their individuality: are they not also in debt, are they not also signs on a board? Today, a ruler cannot in any way oppose the accumulation of wealth, not even for the good of the nation he governs, because that wealth is for the good of a population larger than his nation, even for the good of men yet to be born: if a war were to bring so much wealth, would not the ruler, knowing of all the money it would bring and the good that such money could do in the future, sacrifice, along with his values, his public image and his dignity, the good of the citizens of his nation? Come on now, if the largest market in the world is the arms market, id est a market that produces, albeit mostly unintentionally, a colossal increase in wealth and progress, then waging a few wars, with all the dead and wounded it would bring in the short term, the treatment of which would require, among other things, hordes of drugs, the payment for which would greatly help research into diseases financed by the big pharmaceutical companies, would certainly be a right choice for the long-term survival of our society and the future success of progress; therefore, subject to the common good and held captive by the banks that issue the currency and lend money to states only if it is in their interest, how could the great and powerful ruler oppose it? And likewise, why should the director of the bank, since he has to do the good of the bank, oppose this war and the corruption of the Heads of State? In the aforementioned same way, if data collection leads to the control of all individuals and consequently to a society that is easier to lead, why should the director of a computer company, having to do the good of his company and paid to collect data, refuse to do the good of himself, his employees and the entire human race? But above all, if the elite of today's scientists says that man, if all the necessary data were available, could be controlled like everything else in the world, why should one refrain from treating everyone like sheep and guiding mankind towards the common good decided a priori? There is not a single man who is not guilty. A political revolution alone is useless: the 20th century has shown this. All the monsters that each of us sees outside ourselves are but incarnations of what each of us in part is: man is to be changed, radically... but how? 


In good and evil; and in success and disaster; man, in his imagination, now sees nothing more than his way of life: that is he is incapable of thinking of other ways of existing; he is only able to imagine the success, or more often the disaster, of the way of life that has already been in force for millennia. Decay is no longer a possibility, nor a misfortune of the past: it is the natural state of things, the cosmos perpetuating itself according to its own laws; hence the end of the world is as concrete as a different humanity is a utopia. The inability to see other ways of living leads men to be more anxious, that is to really fight for survival, intensifying even more the same hunger that has led to today's tragedy. We do not live in the night of the world, it is we who stand with our eyes closed, devoured by our own primarily sentimental blindness: our plague is in fact not ignorance, since we all know what of the world kills us, but the sluggishness of our sentiment – there are stars, but they do not shine, because it matters little to shine, if the darkness that surrounds them overpowers and erases them. Civilisation is not an ideology, it does not need propaganda to continue its murderous existence: it does not need anyone to believe in it; it lives by appearing superior to the men who form it, to the degree that the latter, being their private lives subservient to public duties, can do nothing but watch the world burn as if these were the game and the rules and one had only to suffer them – as if civilisation were a monopoly woven into the earth by Hyperuranium within which men are coerced. For example, if the present economic system forces half the world into poverty, it is good to be aware of this, for the sake of general culture; but even better is to be so indignant as to consume the products of that same economic system the proceeds of which will be partly donated to those who are kept in poverty to manufacture those same products. In the same way, we must all remember that progress is frying the globe and that man, with his industries, is the cancer of the planet; but even better is to be so indignant as to buy the ecological products of the same insulted industries. Society progresses by satisfying vices; however, since man has had the brilliant idea of inventing morality, it is good for bon ton to obsessively list all the vices and crimes committed, simulating a confession the witness of which is absolute indifference: in short, it is good to insist that the world is a disaster, just to convince oneself that it is right to give up and make one's existence a slow, meaningless suicide. However, there are also those who, not accepting such a dreadful situation, sink into frustration and resentment to the point of resorting to violence as the only method of innovation – confirming, under the illusion of bringing new winds, the way of life that led to the disaster they themselves suffer with such frustration and yearn so eagerly to overcome. The common opinion, then, is not only that by bringing alternatives, one always fails; but that even if one succeeds in creating a new world, it will still be a madhouse or a pigsty at the gates of the slaughterhouse. In the worst cases, violence becomes rather the ultimate goal: unable to create anything new, all that remains is the destruction of what one hates; a behaviour that makes the world even more inhospitable and sterile, nourishing the vicious circle whereby, if the inability to generate life reigns, one might as well kill the life that already exists, as in vain it trudges in despair. All that remains therefore is an agonising paralysis, with hands and legs sinking into quicksand and the brain constantly going on about the horror of such quicksand, always remembering that hands and  legs will not pull it out. Thus, such drowning only perpetually inflicts lacerating wounds on the heart, which in turn are interpreted by the brain as part of the horror that drowns the person, thus feeding the cycle ad infinitum, until it leads each individual to a shattering psycho-physical implosion, which can only be avoided by getting drunk in the process of drowning, id est by increasing the size of that civilisation that thrives on the satisfaction of vices and addictions – if the world falls apart, there is nothing left to do but look after one's own hole and get drunk in it. Therefore, wherever you go and whoever you ask, someone else is always responsible. Civilisation is a labyrinth where the culprit is always next in line, so it is habitual to create a scapegoat in order to unleash in the form of violence the fury that has not been expressed in the form of innovation. By indefinitely postponing the responsibility, we arrive at a general acquittal of civilisation, which is matched by a boundless hatred: just as a suspected criminal, acquitted by the law for lack of evidence, is damned to be frowned upon by people all his life; so civilisation, officially acquitted, continues to be hated by all its members, who occasionally fabricate some nice horned evidence to destroy everything under the pretext of doing justice and saving the world. This happens because man lives by exterminating and specialising; therefore one must identify objective dangers and kill them, not observe the motions. When everyone passes the blame on to someone or something else, they pass it on according to their own specific competences, subsequently carrying out totally useless partial exterminations that have no other result than that of carrying out human violence: everyone passes on the blame and everyone exterminates the guilty party they are allowed to see with the blinkers of their competence; and nothing ever changes because none of the executioners sees that death is perpetual and not the result of an objective scapegoat. It follows that society is an atrocious and uncontrollable brawl, an all against all where every individual is mobilised against someone and/or something else; and where evil, despite all conceivable objective causes of it being fought, never ceases, but rather, like the Hydra, the more one fights it by attacking its heads instead of its heart, the more it grows vertiginously, increasing the heads themselves – and as if that were not enough, the more the tussle expands, id est the more the Hydra multiplies its heads, the more the blame is postponed, thus the more increases, behind the number of guilty parties, the number of exterminations: and still more heads pop out. The more society decays, the more people call for a decisive action that will solve everything, an action that will attack the head mistaken for the whole beast: everyone thinks of action, of what to exterminate in order to purify civilisation; but no one thinks that, if no one is guilty because everyone in some way from Adam to the present day is culpable, the only thing left to do is to change without violence what is rotten in us as humans, instead of exterminating outside of us what embodies the exaggeration of what is also in each one of us as humans. 


Ali signing autographs at an anti-war rally in Los Angeles, 1967 Photo by UPI/Bettmann Archive/Getty Images


Therefore, I am not here to remember a boxer, a man who was politically relevant to the black community of the United States, a man who like many had no intention of dying in Vietnam for a nation that violated all his rights: I am here to remember a man who possessed everything and who, in order not to betray what he was and/or believed himself to be, in order to remain human, would have sacrificed it as quickly as he knocked Sonny Liston to the ground. I am here to remember a man who had the most glorious of signs on a board for the mere fact that he never stopped nurturing behind that sign a person who was willing to sacrifice everything, not for what that sign said about him, but for what was human in that sign to be left to posterity: a man who earned his sign on the board by being ready to erase it for the humanity behind it. Where life is reduced to survival, to addiction, where life is reduced to what one possesses and not to what one is, sacrifice is madness and suicide: martyrdom degraded to unbearable foolishness. Where life is in what one possesses, what one is is not defined by the world, but rather by one's own violence and hunger: and indifference to the world reigns. So I am not here to remember a champion, a self-made man who possessed everything: I am here to remember a man who was indifferent to what he had, but never to what was human in him – a man who never reacted to those who attacked him, who never harboured rancour, a man who said of those who condemned him «They did what they thought was right»: a man who fought, not by annihilating an enemy, but by bringing to life what was human in him, without being for a single moment blind to the abyss into which the world still wallows today. The first step to changing ourselves is to stop being indifferent to what we are: the first step is to stop believing that the world is like it is, that the universe has some law that would impose such misery – the first step is to stop being afraid to be human: to stop being afraid to give up that sign, to stop paying our debt like that boy who did not enlist for his country, and to continue being human despite everything, without rancour and without despair. It is no one's fault because it is everyone's fault, so perhaps one day it will be everyone's merit. Culture is not having rules of behaviour, it is not passing on, nor is it having a complex language, as if every animal did not have a system as miraculous and unique as our syntax: no animal creates, therefore culture is to create. One was human even as a savage, just as today one is often an ape despite being rational, educated, civilised, and polite. Humans are human, not in the moment they understand what they are referring to; whether they connect the word apple to apple or a D minor chord to sorrow; but in the moment they create together. Well then, although many apes today refuse to call the few human beings by their names, do not despair: for freedom and peace are a path not a possession; and while those apes will waste their time regarding you as simplistic fools; given the fact that things are words, signs of what we are; by regenerating yourselves, the world will speak to you with more joy – and having made yourselves a path and no longer a destruction, you will see a way. Create, do not be afraid: when a seed is fertile, even if lost in the mire, it sprouts – and even if many individuals forget, what the world will be because you have been will not abandon you in oblivion.




excerpt from The Frost Interview with Muhammad Ali, 1974




"He took a few cups of love;

He took one tablespoon of patience,

One teaspoon of generosity,

One pint of kindness.


He took one quart of laughter,

One pinch of concern;

And then, he mixed willingness with happiness.


He added lots of faith,

And he stirred it up well.


Then he spread it over a span of a lifetime,

And he served it to each and every deserving person he met."


Muhammad Ali




***

Andrej Maksimovič was given birth on 17 March 2004 and is officially non-existent: therefore, since we cannot indicate any publications that have actually taken place, we will merely indicate the desired ones: a poem and an essay of excessive size for the attention of many of his contemporaries, just like his articles. He sometimes translates other people's writings, but only for Cultura In Atto: other blogs and online magazines ignore him.


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