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ALESSANDRO MOSCÈ - LA POESIA È UN CAPOLAVORO DI UMANITÀ

BEL ESPRIT - ARTIUM SODALITAS




Molti si chiedono a cosa serva la poesia. Se sia portatrice, realmente, di un valore aggiunto. Lo stesso ci si chiede sul conto della narrativa e della critica letteraria. Ne discutevo durante un viaggio, sorridendo e provocando chi ne sminuiva la funzione (non il ruolo, che di fatto non esiste). Oggi, una società sempre più edonista e mercificata, fa i conti con il prezzo, con la quantificazione di ciò che si vede, si prende in mano e si pesa. Tutto ciò che non è un oggetto materiale passa in secondo piano perché indefinibile. E tutto ciò che è indefinibile spaventa. La letteratura serve, eccome. Ma non in misura reale, per la maggior parte della gente. Quindi nella percezione comune se ne potrebbe fare a meno. La ragione del bene della letteratura ce la fornisce Tzvetan Todorov, il pensatore di origine bulgara- In poche parole Todorov dice tutto. La letteratura non è forma, non è gergo, non è solipsismo, non è rigore.

È semplicemente un capolavoro di umanità, di esperienza e testimonianza.

Possiamo fare a meno di testimoniare il mondo? Di tentare di capirlo attraverso le persone, i gesti, le parole? No, non è possibile. La vera vita è nella letteratura, dunque, perché essa si occupa della condizione umana. Siamo senso, spirito, emozione, paura, speranza. Siamo gioia, tristezza, euforia, disperazione. Siamo una direttrice di senso. Quale migliore introduzione alla comprensione dei comportamenti e dei sentimenti umani, se non immergersi nell’opera dei grandi scrittori che si dedicano a questo compito da millenni? I sogni e gli incubi fanno parte di noi, ma non ne parliamo volentieri. Anche una felicità improvvisa che tende a sfuggire, non la mettiamo mai in cornice.

Eppure ci coinvolge in modo assoluto.

La poesia, la mia poesia, si annida nel senso del non detto, del volontariamente celato. E quando lo scrittore sfida le convenzioni sociali e mette a nudo l’altro, fa cadere un tabù. L’arte stessa educa allo svestimento, e non è un caso che le grandi tele e le grandi sculture del passato raffigurino dei nudi. Ma l’altro ci spaventa se ci punta gli occhi addosso, seppure benevolmente. Ecco perché nella società piccolo-borghese la poesia è percepita come un fastidio e non come una risorsa.

Ma la poesia non può tacere, anche contro il volere della moltitudine.






POESIE


da L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, 2005)



Amore e giardino


Vuoi venire

dove il mondo si assottiglia

e l’eco dei grilli non si sente più?

Io non poso tardare,

il giardino mi aspetta

se non c’è nessuno

dalla piscina delle carpe ai giochi,

quando il limbo intatto

dorme il primo sonno

che io rimando sempre di due ore.

Arrivo trafelato, gli occhi sfidano l’ombra

di chi è come morta tra i veri morti.

Sotto l’ippocastano è rimasto

ancora l’odore delle sue calze,

l’estate lo conserva solo per me,

non sembra vero.



Non c’è altro


C’è chi mi guarda

chiedendomi di non andare

senza dirlo,

chi tace nella notte e nel sonno,

il saluto rimandato

da un’altra birra

che svanisce nel fremito

di scarpe adolescenti.

Neanche un amore da ripetere,

né una fuga cittadina,

un sogno lambito

nei detriti dell’estate

dopo l’ultima pioggia

che bagna gli occhiali.

Non c’è altro che la sedia del bar

su cui rimanere immobili.



da Stanze all’aperto (Moretti &Vitali, 2008)


I


Il lungomare odora

di pesce fritto, di caffè all’aperto

di quel cielo colpito

dalle insegne fluorescenti dei bar

davanti alle case.

La riviera si popola di zainetti,

di fermacapelli immobili

quando il sole è una lancia

che cuoce i muri.

La spiaggia feconda

non ha che la schiuma delle onde

a schiacciare il senso di vicinanza

e di un tuffo nell’aria.

La bonaccia d’agosto

si ferma nelle vele,

la nave da crociera

traccia il confine del nulla,

l’autostrada in cerca del vento

arde nella piazzola di sosta

sena più ombre nella secca




da Hotel della notte (Aragno, 2013)



“Non dire nulla, non dire nulla”,

le sussurro lungo il viale

alla ragazza che ha un punto di vista

diverso dal mio sull’eutanasia.

Ma le sue calze sono nere

e gli occhi stupiti nella penombra,

come la sera, come la notte

sui muri incisi di corso Garibaldi.

E’ un modo di esistere

correre da una città all’altra,

tra i tigli odorosi

e la primavera allegra,

in un bacio stordito

nel cielo rossiccio,

nelle banchine del porticciolo,

lungo la porta del garbino,

di un’altra stagione perduta,

disperata di gioventù, di mai più



da La vestaglia del padre (Aragno, 2019)


“Arrivederci Roma” canterai,

sulle note di Renato Rascel in un varietà televisivo

prima di abbracciare nonno Alvaro con la giacca gualcita, 

nonna Irma elegantissima con la camicia di pizzo delle nobildonne,

in piedi con il vassoio per un brindisi serale.

Ingoierete la luce del bene, la lunga memoria 

cucita nella stoffa dei pantaloni a gamba larga,

nella pelle rimarginata lungo le vene incrociate del braccio.

Tesserete una trama con l’universo, vi riconoscerete

battendo nuove strade nel passeggio dei fondisti




Inedito


I viaggi lungo la statale umbra

un valico e la luminanza di una galleria

il cielo che si muove come una gondola

tra i calanchi corrosi della collina.

Un’automobile rossa con dieci sedili 

un deposito di storie, le mie

con nonno Ernesto e zia Mariella nei sedili davanti

che sanno la meta e non si perdono.

Se abbasso il finestrino respiro il profumo dei tigli

il rumore dell’onda sul grano tagliato




 

Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano. Si occupa di letteratura italiana. 

Ha pubblicato le raccolte poetiche L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme, 2005), Stanze all’aperto (Moretti & Vitali, Bergamo, 2008), Hotel della notte (Aragno, Torino, 2013, Premio San Tommaso D’Aquino) e La vestaglia del padre (Aragno, Torino, 2019). E’ presente in varie antologie e riviste italiane e straniere. I suoi libri di poesia sono tradotti in Francia, Spagna, Romania, Stati Uniti, Argentina e Messico. 

Ha pubblicato il saggio narrato Il viaggiatore residente (Cattedrale, Ancona, 2009) e i romanzi Il talento della malattia (Avagliano, Roma, 2012), L’età bianca (Avagliano, Roma, 2016), Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville, Siena, 2018, finalista al Premio Flaiano) e Le case dai tetti rossi (Fandango, Roma 2022, Premio Prata). 

Ha dato alle stampe l’antologia di poeti italiani contemporanei Lirici e visionari (Il lavoro editoriale, Ancona, 2003); i libri di saggi critici Luoghi del Novecento (Marsilio, Venezia, 2004), Tra due secoli (Neftasia, Pesaro, 2007), Galleria del millennio (Raffaelli, Rimini, 2016), l’antologia di poeti italiani del secondo Novecento The new italian poetry (Gradiva, New York, 2006) e la biografia Alberto BevilacquaMaterna parola (Il Rio, Mantova, 2020). 

Ha ideato il periodico di arte e letteratura “Prospettiva”. Ha diretto il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano”.

Il suo sito personale è www.alessandromosce.com

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